La casa di un poeta è un abitacolo concettuale che si proietta nelle molteplici dimensioni del mondo esterno e nelle plurime intersezioni delle realtà interiori.
Così era la casa dove ha trascorso gran parte della sua vita romana Valentino Zeichen.
Una baracca al borghetto Flaminio, appoggiata su un terreno di proprietà del Comune di Roma, al numero civico 86 dove, oggi, la sua “casa su strada” è diventata “La Casa del Poeta”[1].
“Vivo da re aspettando le ruspe”, disse il poeta in un’intervista[2] in cui ha messo a nudo la sua costante percezione di precarietà esistenziale che stava alla base della sua vita nomade. Quella casa abusiva è, forse, il simbolo tangibile della posizione della poesia – e del poeta – nella società contemporanea.
Lo spazio è poco – solo 12 mq -: è un ripostiglio arredato, un oblò in cui la cesura tra la vista e la visione ha lo spessore di un sospiro solitario.
La raccolta Casa di rieducazione inizia Dalla viva voce di Dario Bellezza, in cui i due “vecchi ragazzi” mettono a confronto le loro abitazioni e le loro reciproche posture all’interno della parola poetica e del caos post-moderno che appare inevitabile e distruttivo[3]:
“(…) Zeichen ha da ridire su tutto,
anche sulla mia casa, proprio lui!
che vive in una baracca da abusivo,
e non possiede nientedimeno che
il suo squattrinato snobismo. (…)
Intanto va a girare la salsa
nel cesso, dove cucina, sempre
in omaggio alle sue strampalate
teorie dell’eterno ritorno”.
Una radice di resistenza etica permane nello sguardo del poeta che si aggira per la città, ossessionato dal dettaglio materiale come scaturigine di quell’indagine storico-sociale a cui non è possibile rinunciare.
Il verso mostra un assetto volutamente antilirico e anticonvenzionale, ingloba un lessico vibratile che attinge a campi semantici variabili, esattamente come le tematiche affrontate.
“Smidollato come un fantasma
sguscio via da sotto il lenzuolo
lasciando una profana sindone
all’amante.
E’ l’alba di un nuovo giorno;
lungo via dei Fori Imperiali
un cinese fa dello jogging;
con la coda dell’occhio
sbircia le tavole geografiche
che documentano le progressive
conquiste dell’Impero Romano.
E’ probabile che sogni
per conto del suo governo,
il dominio del mondo;
confidando nella certezza
che il pericolo giallo, in Occidente
viene associato solo alle cicliche
epidemie influenzali”.
Quasi con vocazione profetica, Zeichen indaga la politica dell’esistenza, sviscera i moti collettivi di una società che non gli appartiene interamente.
Una realtà civica che il poeta conosce – e riconosce – nei suoi più intimi atteggiamenti ma di cui non si sente parte integrante e integrata.
Anche in Zeichen, come in molti poeti dell’ultimo Novecento, la flânerie non è un atteggiamento estetizzante ma un’ossessione irrinunciabile, una continua ricerca dell’accordo invisibile tra il brulicare sommerso delle molte concezioni esistenziali contemporanee e la loro proiezione nel mondo di fuori.
“A piazza del Popolo
A Piazza del Popolo
mi accosto alla vasca
di fianco alla caserma,
nel rinfrescarmi il viso
alla bocchetta
mi avvedo di tenere
tra le mani e
l’acqua corrente
i tratti del volto
di chi fu sepolto
in quel sarcofago”.
La tensione di Zeichen verso la storia – quella soggettiva che l’ha costretto ad abbandonare Fiume, la sua città natale, e quella collettiva di una vita post-bellica di degrado urbano e ambientale– è come una lente d’ingrandimento sul dettame quotidiano.
La noia del benessere (a cui il poeta, forse, è voluto sfuggire) e la banalità delle abitudini cittadine corrodono la fibra etica che si trascina nel tempo e che viene rosicchiata dal comune esercizio al nichilismo.
Con evoluzioni iperboliche delle strofe – lunghe o epigrammatiche che siano -, con toni surrealisti e con un’ironia robusta che rende il pathos un ghigno di sofferta consapevolezza, Zeichen affonda il suo verso nel magma di una costante e indipendente filosofia esistenziale, sempre in bilico tra lo scoramento e la meraviglia.
“Ipotesi creazionista
Un Dio ignoto e casinista
ci ha appaltato affidando
la creazione a dei folli
ingegneri: bilioni di batteri.
Il materiale natura
su cui siamo stampati
è labile e si guasta;
andrebbe protestato.
Per le riparazioni ci vorrebbe
un corpo officina simile
a una nostra copia, ma
la manutenzione costa troppo.
La prossima volta
cambieremo natura
e anche stampatore”.
Ecco che il poeta insorge nella parola poetica, sovverte l’ermeneutica esistenziale e propone una residenza incerta, instabile, scomoda ma necessaria: la poesia.
[1] L’iniziativa sulla conservazione e sulla rivalutazione dell’abitazione del poeta è stata portata avanti dalla figlia Marta, da Emanuele Marchetti e da Sasha Piersanti, in collaborazione con la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma. La fonte delle relative notizie è: https://romah24.com/flaminio-parioli/news/borghetto-flaminio-quella-casa-su-strada-di-valentino-zeichen-reggia-della-poesia/
[2] Su Amica, n. 8, 21 febbraio 1994. Testo di Benedetta Barzini. La fonte è: https://www.ulianolucas.it/reportage/la-casa-di-valentino-zeichen/
[3] Osservazioni raccolte dalla viva voce di Dario Bellezza, dagli amici, in Poesie 1963-2014, Mondadori 2017.