Nato il 9 marzo 1908 a Montemurro, nella “dolce valle dell’Agri”, Leonardo Sinisgalli si trasferisce nella Capitale per i suoi studi universitari. Dapprima, il poeta si iscrive alla facoltà di Matematica e Fisica ma, poi, cambia corso di laurea preferendo quello in ingegneria industriale[1].
Il poeta-ingegnere, perennemente vigile all’epifania delle due muse, poesia e scienza, ispiratrici non solo della sua generosissima poietica ma, soprattutto, della dicotomia essenziale che determina la tensione alla frammentarietà della percezione esistenziale contemporanea.
Appare d’immancabile lettura la concezione sinisgalliana della poesia come elaborazione e moltiplicazione delle suggestioni minimali della realtà, esplicata in una lettera aperta a Gianfranco Contini[2], in cui il poeta dichiara un tipo di poetica condensata nella formula a + bj, il numero complesso che compendia entità reali (a e b) e un operatore immaginario (j) che altera nel profondo la realtà attraverso il linguaggio.
Esiste, per Leonardo Sinisgalli, “un gradiente espressivo (che) regola la poesia nel suo farsi”[3] e articola una “metrica dell’invisibile” capace di stabilire un ritmo alla comprensione della sfera etica ed emotiva che esonda dal reale[4].
Alla cornice storica e antropologica romana, il poeta dedica moltissimi versi che da iniziali ascendenze crepuscolari si allontanano, con sempre maggiore convinzione, dalle formule ermetiche più pregne di obscuritas.
D’altronde un continuo e accorato rimando alla Lucania, terra natale, è presente in ogni poesia che descrive il paesaggio esteriore per rimandare alla complessità stratificata e dirompente della radicalizzazione interiore dell’uomo in sé stesso (o della sua perdita che, per avventura, potrebbe coincidere con il ritrovamento).
Elegia romana
(…)
Accatastati sui muri di una chiesa
davanti alla Fontana di Trevi
(il Tempo ha le zampe di gatto,
ha i denti dei gatti romani)
chi ha deposto i cuori dei Pontefici?
Santa Teresa ha il manto che trasuda
quando a settembre lo scirocco
risale dalla costa africana
e dà un timbro diverso alle campane.
La città ruota come una meteora
alla luce del tramonto: i tarli
crepitano nei soffitti delle dimore
dei vescovi, scendono dai muri
delle case d’affitto gli scarafaggi.
Michelangelo tra queste macerie
cercava la testa bianca di Apollo.
Chi conosce le tue estati, Roma,
sa di aver toccato la luce
fino all’osso, ricorda i capestri,
i catafalchi, le camere di tortura,
l’odore di strame che colpisce
il pellegrino alle tue porte.
(…)
Sembra di vederlo, il poeta flâneur che si aggira per una Roma dilaniata e, allo stesso modo, accresciuto dalla storia attuale e da quella del suo antico e lunghissimo passato.
Circonvallazione Clodia
Porta il mite febbraio
la nottola sui prati
e le gemme alla siepe.
Già spuntano dai viottoli
i ragazzi beati. Piazza
Bainsizza è stellata
di negri che giocano maldestri
con le micce dei razzi.
Appesa ai rami è una palla di stracci.
E il Tevere di sera ci trascina
sciami confusi d’insetti.
L’odore vago delle terre
s’alza fin sotto i tetti
dov’io mi affaccio col muso
imbronciato a guardare la luna
nella cruna di un ago.
Tra il quartiere Prati e il Lungotevere, l’uomo osserva gli oggetti e le componenti architettoniche per apprendere la suggestione alla visione della luna – della grandezza e della sua lirica esemplarità – dal piccolo occhio teso della quotidianità.
Lungotevere
Oggi nessuno sa
se il tempo viene o va.
Un uomo è steso vicino al cane
che gli morde l’orecchio. Un uomo
nudo che ha il volto coperto
di uno straccio scarlatto.
Lo bruca il cane come se fosse morto.
L’uomo giace supino sulla ghiaia
del mattino deserto.
Passa la gente e trova
che ha un altro senso la città.
Ma nessuno sa bene
se il tempo va o viene.
Girano le due sacche sulla riva,
girano a vuoto e non cade
un pesce o una farfalla nelle reti.
Il cane abbaia:
pace o guerra c’è il verde sulla terra.
E l’acqua muove le bilance
a stento, ché il fiume è troppo lento.
Un’immagine di terra rinverdita controbilancia la spietatezza dell’ordine temporale – dato, appreso e incomprensibile- che non si sa se va o viene, non si sa se ha un verso, un moto direzionale, un barlume di compassione nel suo perpetuo fluire, proprio come le acque del Tevere.
Una lentezza recondita sommuove il letto del fiume, sembra quasi che ci aspetti nel cortocircuito ardito della città.
[1] Alcuni dati bio-bibliografici sono tratti dal sito https://www.fondazionesinisgalli.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=86&Itemid=52.
[2] Prima lettera a Gianfranco Contini, Furor mathematicus, Mondadori 1950.
[3] Seconda lettera a Gianfranco Contini, Furor mathematicus, Mondadori 1950.
[4] Tutte le poesie, Leonardo Sinisgalli, Mondadori 2020.