“Alla bellezza di ogni cicatrice” è la dedica lacerante e dirompente che innerva tutta la “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli (La Vita Felice 2022).
L’inizio dell’opera, che già dai primi versi lascia intendere il topos principale, viene affidato a distici sciolti, alternati a monoversi che imprimo un ritmo serrato a una narrazione tragicamente addensata.
Il dato realistico innesta il dramma nella quotidianità, e l’andamento lirico – una lirica prosastica e asciutta, puntuale nello scandire il tempo dei fatti e il tempo della loro percezione – si rivela attraverso un multiverso simbolico dell’impossibilità di imprimere un ordine all’esistenza.
Il linguaggio adulto incontra la scansione della parola di una bambina, sembra empatizzare con l’infanzia e con la sua parte più dolente, l’infanzia violata.
La bambina è una bambola, riceve e introita la dimensione oggettuale e gravemente realistica da un destino indesiderato. Quella bambola bambina ha sogni che nessuno vede, e che sceglie di immortalare all’interno di poesie inventate: “Io la poesia spesso non l’imparavo, l’inventavo lì per lì. L’inventavo con la fantasia e in mezzo ci mettevo pure qualche sogno che ho sempre pensato essere la mia realtà”.
La prosa breve attinge dal ricordo il suo flusso narrativo quasi incontrollato, descrive lacerti di normalità con precise focalizzazioni cinematografiche: è la memoria a scorrere, finalmente liberata nella parola poetica. Una realtà ovattata, mossa dalla dolcezza di una semplicità istintiva, è l’indizio più crudele della prossima sventura.
Non a caso, proprio dopo l’accenno alla poesia d’invenzione, come se così si fossero aperti varchi di una creaturalità indomita, sopraggiunge la bestia.
Il mostro svolge un suo discorso a-coscienziale, la sua voce funge da eco interiore, sembra il rigurgito di un male ancestrale che si pone in un dialogo autoritativo con il candore dell’infanzia.
“piangi le lacrime dell’innocenza/ quella che non avrai più// dammi la tua oscena verginità” è un diktat che capovolge la naturalità e la naturalezza degli eventi, li riorganizza nella catastrofe etico-antropologica della pratica dell’abuso. Le parole perdono punteggiatura e maiuscole, sono governate dal caos della violenza, seguono l’andamento di una follia dionisiaca.
Il diminutivo applicato alle plurime nominazioni inerenti alla bambina, alle parti del suo corpo e ai suoi oggetti, si contrappone alla grandezza di un “male per sempre”.
Un ritornello ludico, comunemente utilizzato in contesti di gioco infantile, diventa una cantilena terrificante.
Si inscena il trauma nell’esposizione della sua specifica e macabra interpunzione: “Cosa fanno i grandi come giochi?”.
L’ingenuità viene colta alla sprovvista dall’animale impazzito che è il carnefice.
I luoghi del quotidiano diventano il teatro del trauma, si trasformano nell’abisso insondabile della violenza: “quel giorno le caramelle/avevano il sapore osceno dello stupro”.
La bambina torna a essere nominata bambola, entra in una relazionalità diabolica e simbolica con una fila di altre bambole a cui una “bambina cattiva/ha tolto gli occhi”.
Si riformula così, nel linguaggio poetico, il processo di straniamento della vittima da sé stessa, la rimozione di parte del suo essere viva, agente di sé medesima. La bambina, dunque, è diventata cattiva – così si auto-percepisce dopo il trauma – e si differenzia dalle bambole per l’atto di cavare gli occhi alle altre sé che possono, così, non vedere – non vedersi – almeno da un occhio. Dall’altro si può ancora scappare dentro a una morte serena, unica apparente via di fuga dal male.
Torna la scena della ferocia, ha un ritmo ulteriormente serrato, ancora evocativo e cinematografico.
La bambina viene trascinata dalla sua dimensione di regolarità e certezze a quella della devastazione della sua purezza: “l’animale impazzito. / L’imene deflagrato”.
“Il dopo” è un continuo ritorno al trauma attraverso una trasfigurazione generale, collettiva, in cui il corpo della vittima è l’intero organismo sociale e, al contempo, l’intera collettività rappresenta la violazione impunita e imperterrita del corpo individuale e della sua solitudine specifica.
All’apice del dolore avviene la possibile rivoluzione della resistenza umana: l’infanzia sopravvive squarciata, si ricovera in una dimenticanza fittizia, trova una dimensione altra in cui non sentire ancora dolore.
La resa all’amore virtuoso è uno specchio ove riunire gli occhi di un figlio e la sorveglianza paterna, nuovi baluardi di una affettività riscoperta, possibile ancora e viva.
Un dolore osceno può diventare nuovo amore per la vita? Sì, se attraversa un processo di trasformazione, riappacificando l’idea di carnefice con il presente della vittima, trovando sollievo nella parola sopravvissuta.
Abbiamo dialogato con Cinzia Marulli per scoprire come è stato possibile rivelare il trauma, e tornare a vivere.
- Si riporta una delle frasi conclusive del libro: “Ai genitori, agli insegnanti dico di essere vigili per captare i segnali, perché ci sono sempre, e comprenderli è essenziale per poter agire nel modo più giusto”. Ci racconti del processo personale e relazionale che ti ha portata a parlare di questo grandissimo trauma?
È stato un processo lunghissimo, complesso, doloroso, ma anche segnato da una forte consapevolezza. Oltre all’elaborazione personale avvenuta in un silenzio durato quasi cinquant’anni (da qui il titolo del libro), ho studiato lungamente questo “fenomeno” se così vogliamo definire quest’aberrazione dell’essere umano. Ho avuto modo di lavorare per la lotta alla pedofilia in un contesto istituzionale e di relazionarmi con esperti del settore. Ho visto cose inenarrabili e molto probabilmente posso far risalire a questa esperienza la nascita in me della necessità di iniziarne a scriverne, ma ho scritto senza una finalità, non pensavo di pubblicare questo libro, era mio, faceva parte del mio silenzio, ma improvvisamente ho sentito la necessità di “urlare”, di esporre totalmente e crudelmente la cicatrice. Non cercavo più il rifugio, ma la condivisione.
- Hai scelto la poesia per comunicare non solo l’accaduto ma, soprattutto, la possibilità di parlarne e la necessità di fare emergere gli aspetti di violenza segreta della società. Qual è stato l’iter linguistico in cui hai tradotto il dramma che hai vissuto nella parola poetica?
Credo che solo la poesia possa affrontare pienamente questa tematica. La poesia può esprime l’inesprimibile, può rappresentare ciò che non è rappresentabile. Non è una questione razionale, ma di percezione, di sensazione, è qualcosa che va oltre la sfera del terrestre, entra in dimensioni altre.
Scegliere come scrivere “Autobiografia del silenzio” è stato complesso ed è frutto di una lunghissima meditazione: ho deciso di partire dal dato biografico perché avevo necessità di umanizzare la bambina, di renderla vera, reale, di avvicinarla alla quotidianità della nostra esistenza, di farla essere il fanciullo che è in tutti noi, allo stesso modo ho dovuto trasformarla in “bambola” ovvero in oggetto nelle mani dell’orco, ma anche l’altra da sé per acquisire la distanza estetica necessaria per potersi esprimere. Ho voluto usare una parola “chiara” e “nuda” perché in una tematica del genere il rischio di cadere nella retorica è altissimo. Ho inserito anche brevissime prose nella sezione dedicata al “prima” scritte in maniera quasi infantile, ovvero come se fossero compilate da una bambina, e questo proprio per portare il lettore nell’ingenuità e nella purezza dell’infanzia prima di lanciarlo nell’orrore della profanazione e della violenza. Sono le sezioni dove appare l’orco, l’uomo nero che è protagonista allo stesso modo della bambina-bambola. È la rappresentazione della parte più oscura dell’essere umano.
In tutto il libro non esistono nomi propri perché questo accadimento non è la mia storia, ovvero non è solo la mia storia che in questa situazione serve come punto di partenza, ma diventa storia universale e condivisa.
-
È possibile, attraverso la poesia, parlare di temi complessi come lo stupro ai bambini più piccoli?
Non credo che ci siano limitazione in poesia. La poesia contiene in sé il celeste ed il terribile e, credo, come ho già detto prima, che sia l’unica che possa trasmettere autenticamente il senso profondo di un accadimento, di un sentimento, di qualsiasi natura esso sia. Come diceva il poeta cileno Vicente Huidobro “Perché cantare la rosa, oh poeti? / Fatela fiorire nella poesia!”(dalla poesia Arte poetica).
- Una lunga tradizione di poetesse analizza il tema dell’abuso (fisico e/o psichico) sulla femminilità: da Anne Sexton e Sylvia Plath a Adrienne Rich (“Cartografie del silenzio” di Crocetti 2020, non a caso un titolo simile al tuo), Margareth Atwood, Alda Merini, Anna Maria Farabbi, Dacia Maraini e si potrebbe continuare all’infinito. Ci parli delle tue ispiratrici – se ce ne sono state – per la stesura di quest’opera?
In realtà non mi sono consapevolmente ispirata ad una poetessa. Ho cercato invece di essere assolutamente coerente con me stessa in una forma di autenticità assoluta. Ho sempre ricercato in poesia quella che definisco “la parola luminosa” ovvero una parola poetica precisa, insostituibile e che nella sua sinteticità comprenda l’infinitezza del dire. Luminosa perché si accende nella mente e nell’anima contemporaneamente, perché illumina il buio dell’incomprensione. Posso affermare però che la chiave di svolta per la scrittura di “Autobiografia del silenzio” l’ho avuto dopo aver letto “Giardino di rovine” del poeta cileno Mario Meléndez che ho avuto il grande piacere di pubblicare in Italia nella collezione di quaderni di poesia Le gemme da me curati per le Ed. Progetto Cultura e del quale consiglio assolutamente la lettura.
- L’ultima domanda la vorrei dedicare al messaggio più importante che vuoi trasmettere attraverso “Autobiografia del silenzio”.
Credo ci sia più di un messaggio in “autobiografia del silenzio”. Prima di tutto l’affermazione mia personale del fatto che la poesia ha e deve avere un valore politico. Non può essere fine a sé stessa, ma deve estendersi verso l’altro da noi, deve essere connessa con la vita; la poesia si sostanzia di vita e può affrontare qualsiasi tematica. La cosa importante è l’autenticità.
Un messaggio che ho voluto trasmettere risiede nella tematica stessa dell’opera ed è espresso nella nota finale ma è anche, inevitabilmente, strettamente connesso al valore politico dell’opera: rompere il silenzio, raccontare è il primo passo verso la cicatrizzazione di una ferita inguaribile, è un gesto d’amore verso sé stessi. E poi c’è la “compassione” che prende il posto del dolore e porta ad una sorta di perdono che non è religioso, ma di sicuro è sacrale; un perdono verso la parte più oscura e fragile dell’essere umano.