L’atto poietico riorganizza la realtà nella scansione assoluta del tempo e della sua fenomenologia psichica – talvolta in contrasto con la temporalità empirica – all’interno di un ritmo dilatato che riunisce le ere personali e sociali in uno stesso frangente immaginale.
Alfonso Guida, uno dei più grandi poeti viventi italiani che testimonia con la sua scrittura l’appartenenza metafisica alla coscienza di un luogo (locus amoenus che è anche funzione filosofico-ermeneutica del sé), trascorre la sua vita in un piccolo paese delle solitarie (e letterariamente fervidissime) terre lucane, San Mauro Forte.
“Il paese è un’iride vuota. Il paesaggio dell’occhio si capovolge, si corica. Costruire ogni giorno intorno alle distanze delle cose incandescenti, esitare l’ipseità! Ripetizione mai dentro lo stesso punto. Il lato del cerchio s’inquadra, buio[1]”.
L’esistenza, o almeno alcune delle sue plurime e sfrangiate interpretazioni, si svolge in una tensione drammaticamente continuativa tra paesaggio e interiorità, naturalità e interventismo scientifico-antropologico, istintività e intellettualismo.
“L’orrore è un carattere. Non si diceva “camicia di forza”, ma amianto, il cloralio più di tutto. Si assume il farmaco. Chi resiste è il genio. A un varco dal difficile, maneggia novembre come spiga e giugno come morte voluta. Che vela. Che continua. Il singhiozzo. La lotta. Chi segna dietro i passi in anticipo?”.
E ancora:
“Dirsi giunti. Dove la terra voleva arrivassimo. Come un’infanzia o un’assenza.
Fuori si svolge la biografia”.
Il senso di straniamento dell’intellettuale è un focus drammatico sulla marginalità ambivalente della parola nella realtà, e della realtà nella parola, fino al suo apice escatologico che è il silenzio.
La solitudine-non-parlata appare, talvolta, come condizione irrinunciabile, strumento di individuazione dell’umano dal resto della natura e dell’individuo dalla globalità irrisolvibile della specie.
“Parlare poco. Silenzio nel cuore del silenzio. L’alito che spiffera la grotta è una colata di direttori d’orchestra o contabili che non ignorano la strada corta. Il lupo finisce, sparato e sventrato. Chi discute, in parte deconcentra”.
Ecco che questi versi ricordano, con altra inclinazione semantica e diversa suggestione gnoseologica, quelle dell’ultimo periodo di un altro illustre poeta lucano, Leonardo Sinisgalli (“creature antelucane” scrive Guida giocando, forse, sulle omonimie tra sensi, suoni e toponomastica):
“Solitudine
Chiedo di essere lasciato
solo a gingillarmi
intorno a un chiodo[2]”.
Così anche Guida, in un dialogo ideale tra poeti, scrive nei suoi Conversari:
“Non fai che ruotare intorno alle immagini. Nient’altro.
Un nodo avviluppa il suo nastro. Lo ascolto.
So che lì trovo innestata la domanda che ancora chiede, inesausta”.
Appare, come in una visione parzialmente ascetica, una simmetria silenziosa e pervasiva tra l’ambito oggettuale e quello psico-spirituale dell’uomo che abita – e disabita- quella stessa oggettualità di sé stesso:
“Ricordare le parole del sonno. Dicerie fissate tra scale dove cade ciò che, nell’immediato e dentro questa solitudine, significa. Le nuvole scese in cortile portano acque di semina, tra la mietitura e la testa, sotto la luce che si scaglia contro l’inverno. Il paesaggio, questo, un isolarsi arcaico, un arcano del lavoro.
Gli uccelli, tra i cespugli, soccorrono, con le forze e l’unguento di sambuco, un cielo ammalato, grigio”.
La parola poetica di Alfonso Guida acquisisce la struttura del verso o il flusso ininterrotto della prosa poetica a seconda del pendio esistenziale che attraversa e del dislivello emotivo su cui scivola per rivendicare l’attitudine al crollo incontrollato.
I maestri del Novecento fanno parte della koinè diffusa del suo linguaggio, della sua caratura lessematica, del suo istrionismo contrito ed estatico che si muove per impulsi sinaptici tra il sintagma lirico e il dettaglio realistico.
“Le porte sono libri. Le finestre posano con i fiori artificiali e bottiglie per metà piene. Al mio fianco la poesia non è una manciata di lievità, un altrove che porta gli estremi dove l’arcobaleno scompare, nel suo nome”.
Roma, da questa visuale discosta, manifesta la sua territorialità periferica, osservata da un centro isolante e archetipico che relativizza la grandezza ecumenica della città.
L’inquietudine per la smodatezza della modernità travolge la dimensione urbana, ne disseppellisce i nervi più nascosti e impensabili.
“È questo il luogo. I passeggeri, l’addio.
Si era intontiti. Un luogo
di scalo, di orologi.
Roma diventa una stazione di provincia e una sola
navetta operaia. Il buio primitivo dei sambuchi,
l’odore di gasolio. Poi via Cesare de Lollis.
La foto segnaletica mostrava un deserto,
come un silenzio alle spalle. Si parlava ogni giorno a una
rampa di scale. Era diverso il tema.
Oh vedi il luogo, è questo.
La scintilla dei tram, la panetteria,
tra i cartoni dei giornali”.
E ancora:
“La parola-esca. La parola-stagno. Roma è un notiziario allo sbando, la breccia, le colonne, la vecchia che incontrai, una sera d’inverno, al bar di Sant’Eustachio. Si diceva che quegli occhi azzurri e le verruche sul naso fossero di Anastasia, la zarina scampata, scomparsa. I tram cinematografici. Un’anteguerra, ecco”.
L’io può sembrare la vittima della congerie capitalistica ma, forse, è solo uno dei suoi predatori, il più strenuo e, contemporaneamente, il più eterodosso.
“Il paesaggio è il Verano.
La stagione è un lungo inverno col sole.
Mi tengo stretto al bosco, nel cappotto,
“La cognizione del dolore”, a sera,
sul 492: Tiburtina-Ottaviano.
L’urlo si spacca e le ore si separano
da una nebbia di ringhiere e di scale,
di metropolitane. Chi resta urta
sul predellino e le foto, nel vortice,
sembrano più nostre, più crivellate.
Vidi un’estate e un moribondo in fuga.
Mi annunciai dietro la capriata sbilenca dell’edicola.
La città assoluta. Resti di voci.
L’officina in cui ognuno getta un’ombra.
Vagavano in un bruciapelo esatto.
Ogni legge di questa morte adesso
preme contro parole che cominciano
in un appartamento a zoppicare”.
Se la Capitale, musa di grandi amori e sconfinati orrori lirici, ribadisce la sua centralità culturale nella maggior parte della grande letteratura mondiale, perfino i romani possono essere grati a un intellettuale come Alfonso Guida che, nella sua visionaria viandanza tra margine e polo, distingue (senza l’eccesso di tutte le polarizzazioni) il topos della vita di provincia dalla tematica del caotico inurbamento psico-geografico, riconducendo i due tipi di quotidianità a una relazione pura che progredisce attraverso reciproci aggiustamenti differenziali.
Così come suggeriscono “la notte ancora al limite” di Guida e quella “demoniaca” di Paul Celan,“la radice scura dove ero-dove ero al principio” attecchisce in ogni luogo ove risiede, di diritto, la parola poetica.
[1] Alfonso Guida, Conversari, ‘round midnight edizioni 2021.
[2] Leonardo Sinisgalli, Dimenticatoio (1975-1978), Mondadori 1978.