Per cantare le stranezze, le ambiguità, le bassezze e le virtù del genere umano, non c’è lingua migliore del romanesco.
Un idioma, il romanesco, quasi indistinguibile dalla varietà regionale bassa di italiano e capace di raggiungere ed essere comprensibile da vaste aree della popolazione.
Non a caso, Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, con lo pseudonimo di Trilussa, su ispirazione belliana, sin da ragazzo ha scritto poesie e sonetti in questa varietà linguistica, caratterizzando la sua scrittura con parole del lessico comune altamente espressive e coinvolgenti.
Il suo primo sonetto preannunciava con determinazione l’intento civico, trasposto in chiave sarcastica, della futura produzione poetica di Trilussa.
L’invenzione della stampa, in terza rima, non lascia spazio a compromessi ermeneutici e presagisce la vocazione canzonatoria e indagatrice del grande poeta dialettale romano:
«Cusì successe, caro patron Rocco,
Che quanno annavi ne le libbrerie
Te portavi via n’ libbro c’un baijocco.
Mentre mo ce so’ tante porcherie
De libri e de giornali che pe n’ sordo
Dicono un frego de minchionerie.»
Trilussa racconta e commenta circa cinquant’anni di cronaca e politica regionali e nazionali, i cambiamenti culturali e le fratture emotive che i fatti storici imprimono alla coscienza collettiva.
Li canta in monodie dai vaghi echi crepuscolari ma di grande impatto sociale.
“Er Caffè del Progresso
è una bottega bassa, così scura
ch’ogni avventore è l’ombra de se stesso.
Nessuno fiata. Tutti hanno paura
de di’ un pensiero che nun è permesso.
Perfino la specchiera,
tutt’ammuffìta da l’ummidità,
è diventata nera
e nun rispecchia più la verità.
Io stesso, quanno provo
de guardamme ner vetro,
me cerco e nun me trovo…
Com’è amaro l’espresso
ar Caffè der Progresso!”[1].
Trilussa, attraverso la favola in versi e rime, si allontana gradualmente dalla forma ben educata del sonetto per giungere a una metrica libera di pura affabulazione civica.
Il poeta romano si pronuncia, infatti, in una schietta e sottile satira politica attraverso brevi scorci di vita che ritraggono, per lo più, animali di specie diverse (raramente umani ma sempre umanizzati) ed elementi naturali come la luna e le stelle che interagiscono tra di loro, si opprimono, si amano, si raggirano, si inseguono e, soprattutto, si educano reciprocatemene alla convivenza non soltanto nello stesso ambiente reale ma, soprattutto, nello spazio emotivo ove ciascun personaggio è presente con la fisicità della propria etica.
“La Luna minchionò la Lucciola:
– Sarà l’effetto de l’economia,
ma quel lume che porti è debboluccio …
– Sì, – disse quella – ma la luce è mia!”.
Gli scorci poetici trilussiani, proprio lì dove appaiono maggiormente discorsivi, perfino colloquiali, contengono una carica espressiva che esalta, a partire da un linguaggio sapientemente popolare, sia il concetto espresso che tutta la scia di riflessioni possibili – o impossibili – che ne derivano.
“Mentre, una notte, se n’annava a spasso,
la vecchia Tartaruga fece er passo
più lungo de la gamba e cascò giù
cò la casa vortata sottinsù.
Un Rospo je strillò: – Scema che sei!
Queste so’ scappatelle
che costeno la pelle…
– Lo sò rispose lei –
ma prima de morì, vedo le stelle”.
Se l’umanità è come una miscellanea di specie animali diverse, la visione creaturale del cosmo è uno dei modi più realistici di fare politica attraverso la parola poetica.
[1] Le poesie da qui citate appartengono all’antologia “Acqua e vino – Ommini e bestie – Libro muto. Poesie di Trilussa”, Arnordo Mondadori Editore 1966.