La prima domanda della nostra intervista a Dino Cerruti è sempre la stessa: che cosa significa per te la Liguria?
La Liguria è importantissima, sono nato qui , radicato qui e la vivo quotidianamente come un regalo. Il nostro territorio è fantastico (anche se logisticamente ci sono grossi problemi) questo è indubbio. Io vivo in un piccolo paese a ponente.
La Liguria che amo è proprio quella dei piccoli centri che ti permettono di vivere in tranquillità sempre a contatto col mare. Non c’è molto ma sei ad un’ora da tutte le grandi città : Milano, Torino e la Francia (anche se oramai anche nei grandi centri non succede quasi più nulla).
Cosa ti ha spinto a passare dal pop al jazz? O meglio quale è stata la molla che ti ha fatto approfondire questo genere e che ha indirizzato in modo più specifico la tua carriera?
Posso dire che, ad un certo punto molti anni fa, quando ancora ero un ragazzino e avevo il tempo di ascoltare dischi per ore (Deep purple, Genesis, Led Zeppelin) non mi piaceva più quello che il mercato discografico proponeva (premetto che in confronto a quello che si trova oggi poteva essere oro colato, ma all’epoca il confronto non reggeva). Ho provato ad ascoltare musica jazz, nello specifico Keith jarrett e sono rimasto folgorato.
Da lì il percorso è iniziato, chiaramente a ritroso, sono andato indietro: Davis, Coltrane, Ellington, Parker ma anche la fusion dei Weather Report, Jaco Pastorius, McLaughlin. Per un musicista tutto quello che avviene a livello di ascolto poi viene trasmesso, copiato a volte scimmiottato sullo strumento e, da lì, il jazz ed il contrabbasso. Il passaggio dal basso elettrico al contrabbasso non è mai avvenuto.
Suono tutti e due gli strumenti con la stessa passione. Indubbiamente mi riconosco sempre di più nel contrabbasso perché lo pratico di più. Ho iniziato a suonare jazz quando oramai avevo 25 anni, il passaggio non é cosi immediato. Il jazz è un linguaggio, devi ascoltarlo e studiarlo prima di poterlo “parlare “in maniera dignitosa.
Quali sensazioni provo a suonare dal vivo e mi piacerebbe che tu facessi una panoramica tra i numerosi festival in cui hai suonato. Raccontami l’esperienza più divertente, più tragica, più emozionante, più commovente.
Il live è l’aspetto più importante, divertente e coinvolgente. Ho delle preferenze ma posso dire che mi diverto a suonare qualsiasi genere e a qualsiasi livello: “Se ti annoi hai sbagliato mestiere.“(citazione di un collega).
Ci sono musicisti che se non suonano determinati brani o generi non si divertono. Non capisci se è una questione “snobbista” (concedimi la parola) o se è un’affermazione della loro (presunta) superiorità.
La musica è bella tutta se fatta bene. In merito alle sensazioni. Sono molteplici e infinite. Ci si può entusiasmare per i ricordi che evoca un brano che stai suonando. Per la soddisfazione di un brano magari impegnativo venuto bene. Ci si può entusiasmare per il sound che si crea sul palco (il suono è una componente fondamentale delle emozioni, a volte più importante delle note singole, della tecnica o della bellezza del brano).
Potrei andare avanti per ore. Emozioni infinite. In merito ai festival l’Italia è piena di jazz festival piccoli e grandi che nascono come funghi e magari scompaiono dopo pochi anni. Non ricordo nemmeno il nome di tutti festival in cui ho suonato. In situazioni piccole o grandi, importanti o meno, ma faccio prima a dirti quelli che mi mancano.
Non ho mai avuto la soddisfazione di poter suonare ad Umbria Jazz, a festival di Nizza in Costa Azzurra e a quello di Roccella Ionica. Situazioni di altissimo livello che mi mancano e spero di poterlo fare.
L’esperienza più tragica sicuramente è stata all’inizio quando ero ancora molto giovane. Abbiamo avuto la pessima idea di proporre in una manifestazione frequentata da rockettari, brani di George Benson, Pino Daniele, Al Jarreau e fischi a non finire! Imbarazzo totale! Ho ancora la registrazione.
In merito alle situazioni emozionanti e divertenti, penso che quando la serata gira (ossia ottiene un risultato, non necessariamente a livello di pubblico) quando in concerto si crea sintonia tra i musicisti, allora quella è un’emozione che si può rinnovare ogni volta, quindi grandissimo divertimento.
Ci sono invece serate in cui la musica non decolla, serate dalle quali, magari, hai delle aspettative che invece si concludono con un nulla di fatto.
Mi trasformo adesso in un ragazzo tra i 15 e i 25 anni, puoi darmi tre consigli concreti per iniziare a suonare musica jazz oggi?
Dovendo dare consigli a chi vuole iniziare a suonare jazz. Non posso che dire: ascoltate, ascoltate, ascoltate e copiate soprattutto la tradizione. Emulate, anche male ma provateci. Una considerazione assolutamente discutibile: non è scontato che un giovane attratto dal Jazz lo ami veramente.
Io penso che molti musicisti scelgano il jazz esclusivamente per studio, ma in realtà non interessa. È quello che è successo a me, ero attratto dalla tecnica e poi pian piano mi sono fatto conquistare dal linguaggio dalla poesia del Jazz.
Dovendo tornare indietro farei un altro percorso. Ho scoperto le cose importanti troppo tardi. Per cui ci ritroviamo con dei giovani tecnicamente bravissimi che non hanno il pathos il linguaggio e la poesia che richiede questo tipo di musica. Insomma l’ascolto non deve essere tecnico analitico, ma deve essere “godereccio” ti deve piacere, cosa non facile all’inizio!
Se guardo alla tua biografia, vedo tante esperienza anche in ambito didattico. Quali stimoli e difficoltà hai incontrato nell’insegnamento?
La didattica è un passaggio importante anche per la propria formazione. Intanto hai sempre sottomano argomenti che magari lasceresti un po’ da parte. Sei sempre fresco. Insegnare per me è un po’ come studiare, mi devo aggiornare sugli argomenti da trattare e tengo freschi tutti (non proprio tutti) gli altri.
Ti sembrerà assurdo ma la difficoltà più grande e questo avviene secondo me per ogni genere, è convincere gli allievi non avere i paraocchi!
Ti faccio un piccolo esempio: insegnando il basso, ho trovato moltissimi personaggi fissati con il grande Pastorius (un caposcuola da non mettere in discussione). Far piacere a questi ragazzi le linee di basso di Ray Brown o Mingus (che arrivano qualche decennio prima) è una delle cose più ardue! Ognuno arriva con il proprio bagaglio personale con il proprio background, convinto sia quello giusto. Fargli aprire gli occhi e le orecchie è una cosa difficile!
Non ultima, la grande soddisfazione di poter trasmettere a qualcuno quello che hai imparato.
Dove ti vedi tra 20 anni e cosa stai facendo?
Quali sono i tre dischi che porteresti sull’isola deserta?
Sicuramente porterei: “Money Jungle” di Mingus, Ellington e Max Roach; “Shadows and light” di J. Mitchell e “My song” di Keith Jarrett