Suona strano parlare di sopravvivenze nella Città eterna ma in fondo – non me ne vogliano i romani (anch’io lo sono) – Roma è una città che sopravvive a se stessa. Alla sua storia, ai tanti strati che si sovrappongono, ai tanti e diversi poteri che si sono affacciati sul suo palcoscenico. La fama di città cinica forse è solo il riflesso autodifensivo di una comunità da sempre osservata “a confronto” con la sua storia.
Tanti gli stereotipi che ne derivano: i romani non conoscono Roma (vero), la osannano solo quando sono all’estero (verissimo), paciocconi all’apparenza ma in realtà freddi (vero pure questo).
Gli stereotipi, si dice, hanno sempre un fondo di verità, sebbene iper-generalizzante.
Uno forse è più “vero” di altri: lo scetticismo, il malcelato disprezzo per gli entusiasmi e per l’ottimismo delle “magnifiche sorti e progressive”.
E figurarsi poi i fantasmi: la magia non è roba per romani. Tutt’al più si possono immaginare scombiccherati e scherzosi come quelli di “Fantasmi a Roma” film del 1961 di Antonio Pietrangeli (con sceneggiatura, tra gli altri, di Ennio Flaiano).
Don Annibale (Eduardo de Filippo) presso la cui casa “albergano” le pallide presenze interpretate con grazia suprema da Sandra Milo, Marcello Mastroianni e Tino Buazzelli, cade addormentato con la luce accesa: il fratacchione interpretato da Buazzelli entra e, discreto, gli toglie il libro dalle mani, spegne la luce, e non può fare a meno di aggiungere con pragmatismo poco spiritico: “tutte le sere così, poi quando t’arriva la bolletta della luce te lamenti!…”

La magia dicevamo non è per i romani ma non è stato sempre vero…
C’è una “Porta magica” con simboli strani che passa inosservata se non fosse per la curiosità che suscita la tozza rovina presso cui sorge (resti di una fontana monumentale del III secolo d.C.), in un lembo della più torinese delle piazze romane, Piazza Vittorio Emanuele.

Siamo sul pianoro dell’Esquilino: da qui è iniziata, a partire dal piano regolatore del 1873, quella operazione di abbellimento, razionalizzazione, pulizia che doveva fare di Roma, così fatiscente e in rovina, una città moderna, la degna Capitale d’Italia. L’operazione sacrificò la sua cintura verde, i suoi ettari di resti archeologici, le sue immense ville, tra cui Villa Palombara, di cui la Porta magica è l’unico relitto.
L’Esquilino aveva avuto vicende alterne, sede in età arcaica di un immenso sepolcreto, bonificato con l’interramento e la destinazione a Horti da Mecenate, l’amico di Augusto, e da allora divenuto luogo ameno e ricco di giardini (hortus a Roma definiva un parco privato con residenze di lusso).
A questo periodo di magnificenza seguì una lunga fase di abbandono dovuto principalmente al fatto che qui non arrivava più l’acqua. Durante la guerra gotica (VI secolo) infatti, gli antichi acquedotti erano stati tagliati. Furono finalmente rimessi in funzione nella seconda metà del ‘500, così la zona rinacque agli antichi splendori e proprio qui, in quella che diventerà Piazza Vittorio, sorse la Villa Palombara, con i suoi meravigliosi giardini, a risvegliare gli antichi fasti residenziali del colle.
Venne edificata tra il 1655 e il 1680 da Massimiliano Savelli Palombara, personaggio molto interessante con una passione estrema per l’alchimia. Passione condivisa da tante personalità di spicco della Roma della seconda metà del ‘600, tra cui la regina Cristina di Svezia, il gesuita erudito Athanasius Kircher, il medico Giuseppe Francesco Borri e l’alchimista Francesco Maria Santinelli (alcuni dei quali furono sotto il mirino dell’Inquisizione, ça va sans dire… ).
La Porta magica era una delle cinque che si aprivano nel muro di recinzione. Essa consiste in quattro blocchi di pietra calcarea con un fregio rotondo di marmo di Carrara sopra l’architrave.

Sebbene i simboli incisi si possano ritrovare in testi che circolavano all’epoca, molte sono le differenze e difficile l’interpretazione (se mai l’interpretazione di un testo alchemico possa esser facile…).
Sugli stipiti ci sono diversi riferimenti ai metalli in corrispondenza dei pianeti, con frasi latine che “illuminano” oscuramente i simboli. Una per tutte: al simbolo del pianeta Marte corrisponde questa iscrizione (tradotta dal latino): “Chi sa bruciare con l’acqua e lavare col fuoco trasforma in cielo la terra e in terra preziosa il cielo”

Ma la frase che più dà il senso all’insieme è il motto bifronte inciso proprio sulla soglia: “SI SEDES NON IS”, frase che significa due cose diverse a seconda del verso in cui la si legge, ma con un significato univoco. In buona sostanza: se stai fermo non vai; se non stai fermo, vai. Esortazione abbastanza esplicita a varcare la soglia e iniziare l’Opus.
Immediatamente sotto: EST OPUS OCCULTUM VERI SOPHI APERIRE TERRAM UT GERMINET SALUTEM PRO POPULO. Lavoro segreto del vero sapiente è dissodare la terra affinché da essa fiorisca il bene per l’umanità (traduzione in: Archipendolo)

Nel 1873, con la distruzione della villa per la realizzazione del quartiere moderno, la Porta Magica fu smontata e trasferita in un deposito. Fu solo dopo la sistemazione di piazza Vittorio nel 1888 che la Porta, unico elemento superstite della villa, è stata sistemata tra le aiuole del giardino. Ai suoi lati sono state poste due statue del dio egizio Bes che non le appartengono, forse per aggiungere un’ulteriore aria di mistero a quella che viene considerata “l’unica esplicita testimonianza plastica del Magistero alchemico giunta fino a noi” (Mino Gabriele, “Arte e alchimia”, 1986, pp. 58-61).
Ironia della sorte, la piazza più piemontese di Roma, di ispirazione londinese/parigina nel suo giardino centrale, restituito finalmente ai romani in forma decente un paio d’anni fa dopo lungo degrado, è il nucleo vitale del primo quartiere multietnico di Roma. Sotto i portici “sabaudi” sono infinite le declinazioni cinesi, indiane, bangladesi, ecc. ecc. dei più vari commerci alimentari e tessili.