Tra chi legge, chissà quanti o quante ricorderanno la primissima pagina del manuale di storia della letteratura del liceo. Là dove si parla degli inizi del volgare italiano, tra carte notarili fabrianesi, liti sui confini, diplomi campani e iscrizioni ferraresi, appare en passant la menzione di certi affreschi in S. Clemente a Roma che risalgono all’XI secolo e contengono scritte in volgare.
Non solo in volgare ma abbastanza “volgari” e, per quanto note, sono molto rovinate e si rischia di non trovarle o di scambiarle per scarabocchi scritti a carboncino, magari opera di una mano moderna. E invece no, sono proprio medievali, dell’XI secolo.
E siccome la città eterna è una fornace in questo momento, non è male immergersi nei suoi molti strati perché effettivamente nel sottosuolo si sta freschi.
Ci troviamo su Via di San Giovanni in Laterano, una via lunga e in lieve salita. Dal Colosseo porta dritta a piazza S. Giovanni, su cui affaccia la Loggia delle Benedizioni della Cattedrale di Roma; la piazza è abbellita dall’Obelisco lateranense, il più alto del mondo tra quelli di origine egizia.
I romani la chiamano “lo Stradone” non perché sia una strada “grande” (è lunga sì, ma non molto larga), piuttosto perché è una delle prime strade selciate di Roma.
Deve la sua importanza al fatto di costituire un tratto, l’ultimo, della via Papalis, il percorso che faceva il papa appena eletto per prendere possesso della “sua” cattedrale, che non era S. Pietro ma, appunto, S. Giovanni in Laterano.
Ebbene, la chiesa di S. Clemente si trova proprio lungo questo percorso prestigioso ed è un luogo che chi visita la città non può assolutamente tralasciare.
Non vi parleremo delle sue tante e mirabili opere d’arte (un mosaico di assoluto splendore, una schola cantorum di marmo di eccelsa fattura, una cappella quattrocentesca che vide all’opera Masaccio e Masolino) perché appena entrati la chiesa vi si mostrerà e vi avvolgerà con preziosità e bellezza, ma dei suoi sotterranei.
Pagando un biglietto si può infatti accedere ad almeno tre livelli sotterranei. È lì che vi accoglie il fresco, è lì che potete percorrere una via – anzi un vicolo – del I secolo d.C., intravedere i resti di un mitreo del III secolo, ascoltare il fresco scorrere dell’acqua di una delle tante vene d’acqua sorgiva che passano nel sottosuolo di Roma. E infine calpestare i pavimenti con mattoni a spina di pesce di innumerevoli “stanze” aperte su quello che era un cortile di un edificio, ora inabissato sotto la chiesa medievale.
Quest’ultima era a un livello più basso dell’attuale: varie vicende, tra cui un terremoto, e lo sciagurato intervento dei Normanni, che arrivarono nel 1084 a “difesa” del papa ma devastarono la città, ne causarono l’abbandono e la ricostruzione a un livello più alto
Gli scavi l’hanno restituita nella sua originaria volumetria e – soprattutto – hanno portato alla luce i suoi rarissimi affreschi medievali. Roma non ne possiede molti: la città del papa si abbelliva via via passando una mano di calce sui muri, accogliendo architetti, scultori e pittori a buttare giù il vecchio e tirare su il nuovo, ad maiorem dei gloriam.
Gli affreschi narrano la storia del santo titolare, S. Clemente papa, quarto successore di Pietro. Fu personaggio autorevole che tuttavia non subì mai il martirio. Ci sono però diverse leggende che, sovrapponendo due personaggi dello stesso nome, crearono una sorta di terzo personaggio dalla vita avventurosa.
Fu questo Clemente leggendario ad essere esiliato sotto Traiano in Crimea, dove fece attività missionaria convertendo moltissime persone; condannato per questo al martirio, fu legato a un’ancora e gettato in mare. Nell’anniversario della sua morte le acque refluivano per una miracolosa marea mostrando la sua tomba, custodita dagli angeli. In questo affresco c’è il ritrovamento miracoloso di un bambino, smarrito l’anno prima e inghiottito dalle acque. Alla successiva “apertura” del mare il bambino era lì, vivo e vegeto.
Ma il miracolo che qui ci interessa è di sicuro più divertente. È conosciuto come Messa di S. Clemente, ma si potrebbe intitolare Le disavventure di Sisinnio.
Sisinnio era un prefetto romano la cui moglie Teodora, seguace della religione cristiana, si incontrava segretamente col papa Clemente e presenziava ai riti che si tenevano di nascosto in case private di convertiti. La prima parte dell’affresco raffigura il momento in cui il prefetto, avendo scoperto le attività della moglie, fa irruzione coi suoi uomini durante una cerimonia e tenta di arrestare Clemente, davanti ad una folla di vescovi e di officianti, compresa Teodora. Per effetto di un miracolo, Sisinnio diventa all’istante cieco e sordo e viene cacciato via, da una sorta di “buttafuori”.
Qualche tempo dopo, provando pietà per le condizioni di Sisinnio, Clemente si reca al suo palazzo per guarirlo. Ma qui il prefetto, adirato, chiama a sé i suoi servi e ordina loro di scaraventare fuori di casa il pontefice.
Grazie ad un altro prodigio, i tre servitori, che fanno del loro meglio per obbedire al loro signore, al posto del papa si ritrovano a tirare una pesantissima colonna e sono ovviamente incapaci di smuoverla.
Ed ecco che l’ancora cieco Sisinnio ordina ai suoi uomini di far uscire quello che ritiene essere Clemente, incitandoli coloritamente a spingere la colonna con il palo (“falite dereto co lo palo”) e a tirare: “traite fili de le pute” (traduzione non necessaria…).
I “cattivi” (Sisinnio e i suoi tre uomini, Albertel, Cosmari e Carvoncelle) si esprimono in volgare, la lingua del popolo, comunemente parlato a quei tempi ma non usato per testi scritti. Clemente/colonna chiosa invece in colto latino: durum cordis vestris saxa traere meruistis (a causa della durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare pietre).
Un fumetto della fine dell’XI secolo con una curiosa e unica commistione di sacro e profano.
Anche questo in fondo, è molto “romano”.