I romani sono caustici, si sa, uno humor sarcastico, più o meno corrosivo, serpeggia in tutti gli strati sociali. In genere gli appellativi, le metafore, i lazzi sono espliciti, altre volte meno.
C’è una statua “parlante” che viene definita “Abate Luigi”.
È talmente anonima e sgraziata che il popolino gli ha affibbiato l’appellativo di abate perché… non è né carne né pesce, non è definita: come l’abate, che un po’ è prete e un po’ non lo è. Conoscendo i romani, è più plausibile questa spiegazione che non quella che riferisce una somiglianza con l’abate della vicina chiesa del SS. Sudario.
Il povero “Abate”, fratello sfortunato di statue ben più visibili e famose (ne parleremo poi), lo vedete se proprio volete farci caso.
Eppure non è che non sia visibile: si trova presso una delle chiese più centrali di Roma, S. Andrea della Valle, sul Corso Vittorio Emanuele, tra Campo de’ Fiori e Piazza Navona.
È la chiesa-simbolo del nascente barocco con artisti del calibro di Domenichino, Lanfranco, Mattia Preti. La sua cupola è la seconda di Roma dopo S. Pietro.
Solo che la statua è stata collocata, dopo diverse peripezie, lungo un fianco della chiesa, in piazza Vidoni, un anonimo slargo creatosi dopo le demolizioni per l’apertura del Corso Vittorio. Non ci passa mai nessuno. Oltretutto è celata dall’assedio irrispettoso di automobili, moto e bici.
È senza testa. Alla fine l’amministrazione capitolina ha deciso di lasciarla così, dopo che diverse volte era stata decapitata. E, ironia della sorte, era stato rubato anche il calco, e poi il calco del calco. Questa Caput mundi suscita davvero meraviglia…
Si ritiene che questo simulacro di oratore o magistrato in toga appartenesse al cosiddetto Hecatostylum, il “portico delle 100 colonne”, che delimitava la vasta area del Teatro di Pompeo sulla quale sono stati costruiti tutti gli edifici di questa zona di Roma.
Nel 1966, al momento del furto della testa, sulla statua fu apposto un cartello che diceva: “O tu che m’arrubasti la capoccia vedi d’ariportalla immantinente sinnò, vôi véde? come fusse gnente me manneno ar Governo. E ciò me scoccia”. (Trad. “O tu che mi rubasti la testa, vedi di riportarla immediatamente, sennò, vuoi vedere? come se fosse niente, mi mandano al Governo. E ciò mi secca”)
E suona quasi ironica la scritta che dal 1924 orna il basamento, con la sua allusione a un luogo sicuro in cui fissare la propria dimora: “FUI DELL’ANTICA ROMA UN CITTADINO / ORA ABATE LUIGI OGNUN MI CHIAMA / CONQUISTAI CON MARFORIO E CON PASQUINO / NELLE SATIRE URBANE ETERNA FAMA / EBBI OFFESE DISGRAZIE E SEPOLTURA / MA QUI VITA NOVELLA E ALFIN SICURA“.
Sono sei le statue sparse per Roma che hanno funzionato come “bacheche” per affiggere anonimi e salaci componimenti, in genere molto critici con il Potere.
Costituivano il cosiddetto Congresso degli Arguti.
Una è quella del “Babbuino”, che dà il nome alla fontana e alla via. Anche il “Babbuino” (con le due “B” del dialetto) non è un Adone e la sua posa sghemba non è molto raffinata, così che il nome più che dalla scimmia potrebbe derivare dal termine romanesco “babbione” che deriva dal latino “bambalio, bambalionis” “vecchio svanito e cialtrone”.
Altri “arguti” sono Madama Lucrezia presso piazza Venezia e il Facchino di Via Lata. Ma i più noti sono senz’altro Marforio e Pasquino, anche perché tra di loro c’erano scambi di battute a distanza: la più famosa è questa dei tempi dell’occupazione francese:
Marforio: “I francesi so’ tutti ladri”
Pasquino: “Tutti no, ma Bona Parte”
Il primo è (finalmente!) una bella scultura che rappresenta una divinità fluviale che ora è conservata nei Musei Capitolini ma proviene dal Foro di Augusto (Mare in Foro viene definita in un documento del 1588, da qui il nome di Marforio).
Pasquino è molto probabilmente la statua di un guerriero che ne regge un altro morente (Menelao e Patroclo?) ed è stata rinvenuta negli scavi per la ristrutturazione del Palazzo Braschi, forse appartenente in antico alla decorazione dello stadio di Domiziano. Ora è sull’angolo smussato del palazzo, nella piazzetta che da lui prende il nome.
È la più importante di tutte, quella che più di ogni altra si caratterizza per la voce del popolino che punzecchia il sistema papale rivelando la vigilanza sorniona che si nasconde dietro alla proverbiale adattabilità al potere dei romani.
Tanto caustiche erano le invettive in versi che i papi fecero vari tentativi di disfarsi della statua (Adriano VI la voleva buttare nel Tevere) ma ne furono trattenuti per evitare probabili sommosse.
Ai tempi di Urbano VIII Barberini (1623-44) che fece fondere le tegole del Pantheon per il baldacchino di S. Pietro comparve la colta scritta: “Quod non fecerunt Barbari fecerunt Barberini” (quello che non fecero i Barbari lo fecero i Barberini).
Una delle più famose pasquinate fu quella che comparve dopo la sistemazione della Fontana dei Quattro Fiumi in piazza Navona con l’elevazione dell’obelisco (guglia). “Noi volevamo artro che guglie e fontane pane volemo, pane, pane e pane”