Castello di Casotto
Castello di Casotto - Foto di Gianni Dall'Aglio

Castello di Casotto, dove amore e politica si intrecciano

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In linea d’aria la distanza dalla Liguria è poca; in “linea di terra” è qualcosa di più tra curve, salite e discese. Ma il giorno della mia visita, di quella ventina di persone che eravamo più della metà erano liguri.

Perché il Castello Reale di Casotto, ben celato nei verdissimi, fitti boschi delle alte colline a sud di Mondovì, in comune di Garessio, non è difficile da raggiungere dalla nostra Riviera.

Il primo sguardo d’insieme è di un luogo dove – a dispetto dell’architettura inequivocabilmente “sabauda” – sarebbe normale incontrare monaci o pastori. I pastori in effetti ci sono, o almeno ci sono bianche mucche di razza piemontese che pascolano e ruminano nei prati accanto al ruscello, accompagnante dai loro vitelli dal manto di colore “fromentino scuro”.

I monaci c’erano. Ci sono stati. Ci furono. All’inizio, grosso modo mille anni fa, erano forse in otto e vivevano in capanne. Da lì, si dice, il nome Casotto, “case otto”. Mah…

Perché il Castello Reale nacque nell’XI secolo come Certosa; fu la prima in Italia, forse fondata da San Bruno che arrivava dalla Grande Chartreuse di Grenoble e andava a Roma.

La certosa crebbe nei secoli, nel Quattrocento conobbe un importante fase di ampliamento, divenne un fulcro di attività economiche e culturali e un punto di tappa lungo una delle tante vie commerciali, culturali, religiose (e militari, inevitabilmente) che attraversavano le Alpi.

Ebbe chiesa, celle di abitazione per i monaci (probabilmente erano tredici, come i dodici Apostoli più il Priore che rappresentava Gesù), chiostri, edifici per i novizi, i conversi e i numerosi collaboratori laici necessari a “far funzionare la macchina” del monastero.

Non mancava qualche “comodità moderna” come l’acqua corrente nelle celle, grazie a una rete di canaline realizzate con legno di ontano, che tiene bene l’umidità anzi si indurisce e pietrifica a contatto con l’acqua.

Subì anche qualche saccheggio e qualche incendio.

La terza fase della sua esistenza iniziò nel 1754 quando fu eretta la grande facciata barocca che ancora vediamo, secondo il disegno dell’architetto Bernardo Antonio Vittone, uno dei principali esponenti del Barocco piemontese. Divenne una certosa elegante e dall’aspetto aristocratico.

Ma a fine secolo arrivò Napoleone, i suoi soldati la saccheggiarono e quando l’Empereur decise la soppressione degli ordini religiosi iniziò un periodo di rovina.

Nel 1837 Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna, arrivò qui per caso durante una battuta di caccia e decise che questo luogo di antica preghiera immerso nei boschi poteva diventare un castello reale di caccia. Lo acquistò e iniziò il restauro della parte più funzionale al destino di residenza nobiliare, mentre la parte retrostante con le celle monastiche e il grande chiostro fu lasciata al suo destino di distruzione.

Ma chi si innamorò davvero di questo castello fu il successivo Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, coi suoi cinque figli rimasti giovanissimi orfani di madre: Maria Clotilde, Umberto (futuro Re Umberto I), Amedeo (Duca d’Aosta poi Re di Spagna), Oddone (il patrimonio culturale di Genova deve parecchio a questo principe morto giovane e malato che fu un grande amante delle arti) e Maria Pia (che divenne Regina del Portogallo).

Vittorio Emanuele era il re ma la politica non fu mai la sua passione, di quella se ne occupava più volentieri e meglio il suo Primo Ministro Camillo Benso di Cavour. Al “Re Galantuomo” piaceva la caccia, la vita nella natura, le donne, il buon vino, la vita semplice della gente di montagna e a Casotto trovava tutto ciò.

Qui trascorse periodi lieti con la “bela Rosin“, una donna di umili origini, Rosa Vercellana, con cui visse una sincera e lunga storia d’amore che lo portò a sposarla religiosamente e poi morganaticamente, cioè senza che lei e i suoi eredi entrassero nella linea di successione dinastica né acquisissero diritti sul patrimonio.

La “leggenda” vuole che sul ritratto della Rosin esposto in un corridoio del castello si conservi l’impronta di un bacio che il Re diede all’immagine della sua bella. In effetti osservando nella giuste condizioni di luce si vede bene il segno di due labbra in corrispondenza della guancia destra della donna.

Alla sua moglie amata Vittorio Emanuele concesse il titolo nobiliare minore di Contessa di Mirafiori e di Fontanafredda e oggi una discendente diretta del Re e della Rosin, Caterina Gromis di Trana, firma articoli di argomento naturalistico-storico su riviste nazionali raccontando volentieri gli aneddoti di famiglia che risalgono sino al reale quadrisnonno e alla sua bizzarra storia d’amore rustico.

Ma c’è un’altra donna importante per la storia italiana legata al Castello di Casotto: la figlia maggiore di Vittorio Emanuele, la principessa Maria Clotilde. Di carattere dolce e di grandissima devozione religiosa, portata più verso il convento che la politica, tenne comunque il ruolo di prima donna di corte e accettò un “matrimonio di stato” con un rampollo della famiglia Bonaparte voluto da suo padre il Re e da Napoleone III per rinforzare i legami politici tra Regno di Sardegna e Francia.

La sua figura è molto importante anche perché per lunghi anni tenne un diario in francese in cui scriveva tutti gli avvenimenti delle sue giornate, anche i più banali. Un documento storico importantissimo per la storia del Castello e della vita che vi si svolgeva.

I Savoia tennero il Castello per poco più di quarant’anni, poi nel 1881 lo vendettero. I privati, per lo più francesi, che lo possedettero fino alla fine del XX secolo non se ne curarono molto, e fu solo grazie alla Regione Piemonte, che lo acquistò nel 2000, che oggi, pur non ancora completamente restaurato, è visitabile e se ne può ascoltare la storia.

Non si potranno riavere le parti andate distrutte, le celle dei monaci e il chiostro, e si deve trovare una destinazione alla celleria sottostante, che fu stazione di posta, poi sede di una allevamento di asine ed è ora abbandonata.

Ma quello che è già restaurato e visitabile rende una gita al Castello di Casotto un buon modo di trascorrere una mezza giornata della bella stagione e di apprendere qualche notizia solo apparentemente secondaria su fatti e persone che hanno contribuito a costruire, nel bene e a volte nel meno bene, la nazione e il popolo che noi tutti siamo.

Tutte le foto sono di proprietà di Gianni Dall’Aglio

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Genovese, per ragioni familiari divido (anzi, raddoppio) la mia vita tra Genova e Sanremo. Dopo la laurea in Geologia ho lavorato all’Università di Genova ma da più di vent'anni collaboro con case editrici locali e nazionali come autore di libri, guide, articoli su turismo, storia, arte e scienze; sono Direttore Responsabile del Gazzettino Sampierdarenese, socio del Club per l'UNESCO di Sanremo e delegato regionale del FAI, Fondo Ambiente Italiano. La mia famiglia comprende anche cinque gatti e un numero quasi incommensurabile di alberi di bosco e piante da giardino.

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