Francesco De Giorgio biologo, etologo, naturalista, negli anni ’80 allievo del prof.Danilo Mainardi presso l’Università di Parma.
Presidente dell’Associazione Sparta Riserva dell’Animalità, in provincia di Imperia, Francesco De Giorgio si interessa anche di filosofia antispecista. E’ stato fondatore dell’Istituto Internazionale di formazione Learning Animals insieme a sua moglie José.
Promuove lo sviluppo di un paradigma di conoscenza, consistente sia nella teoria che nella pratica, all’interno di una lotta di liberazione per l’Animalità, anche umana.
Francesco dedica le sue energie non solo a comprendere e supportare gli animali in difficoltà, ma anche a porre in una luce diversa e all’interno di una prospettiva critica la questione animale.
De Giorgio ritiene la questione animale la madre di tutte le questioni che opprimono la nostra società e che va affrontata con etica, coscienza attraverso una nuova matrice culturale che ponga centrale il punto di vista animale.
Da decenni svolge formazione per proprietari, professionisti e volontari che si occupano di animali e animalità, non attraverso un metodo, ma attraverso una conoscenza che vada alle origini di un’etologia che abbia una base etica ed antispecista.
Fra i suoi volumi più recenti: Dizionario Italiano/Cavallo (2010), Comprendere il Cavallo (2015), entrambi pubblicati in Italia.
Equus Lost? (2017), pubblicato negli Stati Uniti, Nel nome dell’Animalità (2018), con la traduzione in spagnolo (2019) e in tedesco (2021).
Francesco, vorrei partire dalla definizione di antropocentrismo e di specismo così da mettere subito in chiaro che non siamo sempre depositari di verità assolute, ma che, anzi, la nostra visione della realtà si basa molto spesso su convinzioni errate ed auto prodotte dall’uomo.
E’ bene illustrare alcuni concetti di base che poi andremo a ritrovare in molti altri discorsi.
Partiamo dal dato di fatto che viviamo nell’Antropocene, dal greco anthropos, uomo e koinos, recente: l’uomo ha cioè una posizione verticistica sugli altri animali, con una visione esclusivamente antropocentrica.
Se volessimo raffigurare l’antropocentrismo con un’immagine, questa sarebbe una piramide in cima alla quale troviamo l’umano e poi, a scendere, tutte le altre specie animali.
Dai cani, alle mucche, ai cinghiali fino ai rettili e agli insetti con una gerarchia in discesa decisa dall’umano.
Nel biocentrismo, invece, vengono annullate le gerarchie e ogni specie ha un valore di per sé. La biologia ha di fatto un valore di per sé.
Le specie hanno quindi un valore indipendentemente dalla posizione gerarchica dettata dall’antropocentrismo.
La visione immaginativa dello specismo è più circolare, possiamo immaginare una sfera.
Non c’è dimensione gerarchica nella rappresentazione delle specie, ma l’umano è sempre al centro.
Parliamo poi di specismo, un’ideologia che pone l’uomo totalmente distinto dalle altre specie.
Lo specismo nasce per giustificare l’oppressione degli altri animali. E’ ovviamente discriminatorio come lo schiavismo e il sessismo.
E che cosa si intende per animalità?
Diciamo subito che se l’animalità è biologica, l’umanità è concettuale.
E proprio l’allontanamento dall’animalità è alla base dell’Antropocentrismo e dello Specismo.
Ogni nostra cellula è di fatto intrisa di animalità: l’animalità è inconfutabile, è un dato di fatto.
Poi accade che la speculazione legata all’umanità ce la fa perdere e diventiamo “troppo umani”
Perdere la nostra animalità significa perdere anche una logica animale, un senso etico delle cose e degli avvenimenti.
Significa non solo muovere una guerra verso gli animali, ma anche verso tutti quegli umani che hanno scelto di restare animali facendo resistenza, ormai quotidiana, ai soprusi, all’irrazionalità di questo delirio antropocentrico.
Chi sa restare animale sa che la resistenza è una scelta ineluttabile, un dovere, una responsabilità, un impegno civile, etico e di giustizia animale.
Restiamo animali e R-esistiamo come tali.
L’umanità è un’opinione, mentre l’animalità è un fatto biologico inconfutabile.
Tra gli animali che l’uomo colloca in basso nella sua scala gerarchica troviamo i suini.
Hai scritto un lungo saggio intitolato I maiali non esistono pubblicato nella rivista Axolotl di Danilo Zagaria.
Che cosa intendi di preciso con questa analisi?
I maiali non esistono perché fino a quando la nostra visione del mondo, la nostra osservazione dei comportamenti, la nostra ideologia di riferimento avrà connotati specisti, vedremo solo categorie e mai soggetti.
Potrai solo convivere con assenze e non con presenze, potrai vedere in un maiale solo qualcosa da consumare e non qualcuno con cui dialogare.
Potrai solo pensare che i maiali siano incapaci di ribellarsi perché li vedi come una massa informe, come un mero dato quantitativo.
Se invece sei in grado di cogliere i principi di resistenza di quel maiale, di quel gruppo di animali, di quella brigata animale, ne saprai cogliere anche il messaggio che portano, la lotta che diffondono, la voce che alzano.
Se invece preservi o ti vai a riprendere la tua Animalità, riconosci nei tuoi conviventi animali quello stesso valore, quella stessa voce, quella stessa avventura evolutiva che appartiene anche a te, animale umano.
Tu e tua moglie Josè sperimentate un’esperienza quotidiana diretta con i suini presso la vostra riserva Sparta: chi sono i vostri speciali compagni di viaggio?
A Sparta conviviamo con un gruppo familiare di maiali, nello specifico con cinque sorelle.
Eos, Rhea, Artemide, Pandora e Astrea provenienti da un sequestro che le ha sottratte a un allevamento illegale e in generale allo specismo.
Questo rapporto diretto ci permette di conoscerle nel quotidiano non solo come specie, ma come soggettività, ognuna di loro con un proprio dialogo con il mondo, con propri comportamenti, proprie espressioni.
Liberare gli (altri) animali dall’oppressione, dalla sofferenza, significa anche liberare la loro conoscenza, una conoscenza libera da antropocentrismi e specismi.
Noi, infatti, pensiamo spesso che la conoscenza sia unica, universale, neutra, oggettiva e apolitica, ma non è così.
Le scienze animali, ad esempio, rispondono a ideologie più o meno velate, a credenze date per verità, a convinzioni passate come fatti.
Ma anche quando i numeri, i dati e le evidenze statistiche sembrano essere solide, in realtà poi nelle ipotesi, nei metodi e nelle conclusioni di uno studio si ricade nelle proiezioni culturali e ideologiche di chi lo ha condotto.
Che cosa è cambiato rispetto agli studi di etologia che hai condotto trent’anni fa sotto la guida di Danilo Mainardi?
Sono cresciuto nel campo universitario della biologia, e in particolare dell’etologia, quando era il ragionamento scientifico a essere prevalente rispetto ai numeri, quando era una logica biologica a guidare la ricerca e non l’ossessione per l’evidenza scientifica.
All’epoca, parlo appunto di trent’anni fa, anche i miei esami di etologia erano reale rappresentazione di un ragionamento scientifico.
I numeri rappresentavano giusto dei dati, si dava più spessore a un pensiero biologico che oggi sembra essere eresia.
Inoltre, mentre allora lo studio del comportamento era più spesso fine a se stesso, senza la ricerca ossessiva di particolari risvolti pratici e utili, oggi la conoscenza animale sembra essere tale solo quando utilizzabile.
In particolare utilizzabile dalle industrie dell’oppressione, come quella zootecnica, all’interno della quale animali come i maiali sono imprigionati, non solo fisicamente, ma come immagine d’Animalità.
Tutto ciò induce ovviamente ad una percezione dei maiali falsata e fuorviata da luoghi comuni che nulla hanno a che vedere con le caratteristiche reali di questi animali.
Certo. Ed è per questo che dobbiamo quindi finalmente arrivare ad un’etologia antispecista, cioè ad una disciplina scientifica, filosofica, ma anche politica, che non porti a una comprensione meccanicistica, funzionalista e, in definitiva, consumistica del comportamento animale.
Un’etologia che guardi non all’animale, ma a quell’animale, non ai maiali, ma a quei maiali, non a una specie, ma a quella soggettività e a quel gruppo socio-cognitivo all’interno del quale le soggettività emergono.
Allora, e solo allora, vedremo che i maiali non esistono in quanto categorie, ma esistono “quei” maiali in quanto soggettività.
I maiali finiscono infatti per la maggior parte negli allevamenti intensivi: etica, salute ed ecologia come si collocano all’interno di queste strutture costruite dall’uomo?
Diciamo subito che l’Etica viene prima di tutto. E’ in cima a qualsiasi ragionamento.
Il mio focus sono gli animali, ma la salute è ovviamente una leva importante per le persone.
E allora è bene che si sappia che è biologicamente inappropriato mangiare la carne perché l’uomo nasce frugivoro: milioni di anni fa si nutriva di frutta, tuberi, tutta la parte vegetale, poi qualche uovo e in seguito qualche carogna.
E’ un processo culturale l’aver iniziato a mangiare carne perché la cultura della caccia poneva anche le basi per un villaggio custodito dalle donne mentre gli uomini andavano a caccia.
Noi l’ abbiamo poi reso scontato nutrirsi di carne quando invece non si tratta per nulla di un’appartenenza biologica.
Da un punto di vista ecologico è certo che la discriminazione tra specie giustifica lo sfruttamento.
E’ fondamentale infatti aumentare il livello di consapevolezza delle persone.
La totale mancanza di empatia nei confronti degli animali che maltrattiamo ed uccidiamo ogni anno a scopo alimentare – 2 miliardi e mezzo in Italia, 170 miliardi nel mondo – come si ripercuote secondo te sullo sviluppo dell’umanità?
Intanto cerchiamo di eliminare subito questa ipocrita differenza tra allevamenti intensivi ed allevamenti felici.
L’epilogo è uguale in entrambi i casi: gli animali vengono uccisi e macellati.
Anzi, paradossalmente penso che alla fine se la passi peggio un maiale che vive libero all’aperto senza che gli sfiori il minimo dubbio di dover morire, piuttosto che un maiale costretto e maltrattato negli allevamenti intensivi.
In questo secondo caso la morte potrebbe essere quasi, purtroppo, una sorta di liberazione.
Si può decidere di non mangiare carne pensando alla sofferenza cui gli animali vengono costantemente sottoposti. Di fatto, però, non ci chiediamo mai quanto male può nutrirci del dolore altrui. Tu come ti comporti?
La mia scelta è di non mangiare animali perché fa male a me. Personalmente non mangio carne perché lo ritengo non umano, al di là dell’aspetto del dolore.