“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra vero e falso”.
Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975)
Hannah Arendt ha profuso il suo impegno politico, sociale e morale nel mettere a fuoco la natura e il carattere dell’autorità e del potere assoluto. Il suo saggio Le origini del totalitarismo, del 1948, è considerato un testo fondamentale per la comprensione della tirannia moderna, quella realizzatasi nel XX secolo nei suoi aspetti più estremi del nazismo nella Germania di Hitler e del comunismo nella Russia di Stalin, dove si assiste alla trasformazione delle classi sociali in masse indifferenziate prive della scintilla dell’individualità attraverso una propaganda diffusa e coercitiva, accompagnata dall’uso del terrore teso a scongiurare ogni possibilità di dissenso. Di primaria importanza sono anche i suoi studi di filosofi come Socrate, Platone, Aristotele, Kant ed Heidegger, interpretati attraverso la sua esperienza personale, quella di una pensatrice fuori dagli schemi che va ben al di là della sua condizione di ebrea omologata e perseguitata, che pure ha tanto contribuito all’originalità e obiettività del suo pensiero e delle sue analisi e che in qualche caso hanno incontrato l’incomprensione o la contrarietà della stessa comunità ebraica. Ella stessa spiega questa sua posizione, dopo aver ricordato che per molti anni, anche dopo la fine della persecuzione nazista, aveva ritenuto che l’unica risposta possibile alla domanda: “Chi sei?” fosse: “Un’ebrea”, quando riferisce l’affermazione con la quale un ebreo chiamato Nathan il saggio risponde all’ordine: “Avvicinati, ebreo” con le parole: “Io sono un uomo”. In questo senso si impone proprio per la sua novità, esente da qualunque schematismo o pregiudizio, la scoperta di quel fenomeno da lei chiamato “la banalità del male”. Nel 1961 venne inviata dal settimanale “New Yorker” a Gerusalemme per assistere al processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, rimanendo colpita dall’affermazione dell’imputato di non considerarsi responsabile dei crimini commessi perché aveva solo eseguito gli ordini dei superiori, come se questo valesse a giustificarlo dei sei milioni di ebrei mandati a morte. Ella riflette a fondo su questa questione e scrive le sue illuminanti considerazioni nel libro intitolato per l’appunto La banalità del male. Eichmann, considera, è “un uomo comune, normale, banale, mediocre e superficiale”. Non si pone domande, non ha dubbi sull’esigenza di rispettare le leggi e gli ordini dei superiori, anche se questo comporta commettere mostruosità. La sua è la cieca obbedienza di un individuo privo di anima e coscienza inserito in un meccanismo infernale, che esegue passivamente l’ordine di uccidere cittadini inermi e senza colpa perché non sa più distinguere il bene dal male. Il perfetto uomo-massa privo di senso critico che affida il proprio agire al contesto in cui si trova, e se quel contesto è costituito da barbarie e orrore, commette le peggiori atrocità perché così vuole il potere che lo guida. L’amaro bilancio della riflessione della Arendt si conclude con queste parole:
Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo; esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici e, nel momento in cui cerca il male, rimane frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere integrale.
Disegno e scheda di Dionisio di Francescantonio, dal libro-mostra Profeti inascoltati del Novecento. Sessantasei personalità fuori dagli schemi illustrate dai disegni di Dionisio di Francescantonio e da approfondimenti di intellettuali, scrittori e critici d’arte, Genova 2022.