Ho provato anch’io.
È stata tutta una guerra
d’unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.
(Anch’io)
Lo scontro con i limiti della ragione.
“Il muro della terra”: solitudine e difficoltà comunicativa.
Il muro della terra (ancora un titolo dantesco: Inferno X, 2) esce da Garzanti nel 1975. Già dall’epigrafe (“Siamo in un deserto, / e volete lettere da noi?”, da una lettera del Caro) introduce il lettore in quello che sarà il “luogo” della raccolta, lo stato emotivo dell’Io del poeta: “Un uomo solo, / chiuso nella sua stanza. / Con tutte le sue ragioni. / Tutti i suoi torti. / Solo in una stanza vuota, / a parlare. Ai morti.” (Condizione).
Una solitudine che determina un’inevitabile difficoltà comunicativa e che rimarca l’ormai sopravvenuta estraneità ai luoghi e ad ogni socievolezza: il deserto avanza, occupa via via tutti gli spazi, chiude ogni ragionevole via di fuga.
“Con Il muro della terra” – scrive Adele Dei – “si compie a pieno l’evoluzione “fusolare” del linguaggio poetico di Caproni, che tende ora sempre più a scarnificarsi, a circondarsi di vuoto, dosando con avarizia le parole: dalla sinfonia alla musica da camera, dall’addensamento del poemetto a una “canzonetta indurita”, solo esteriormente scorrevole.” Adele Dei, Giorgio Caproni, p.159
Così spiega Giorgio Caproni:
“È una forma di canzonetta indurita. Se uno la legge scorrevolmente è sempre una canzonetta: non la canzonetta del Cavalcanti (eccetto nel Seme del piangere), ma la canzone dei primitivi, dei poeti delle origini, una canzone ancora dura, come nella scuola siciliana, come nei primi toscani, o in Giacomino Pugliese. La lingua italiana non c’era ancora: c’era questa durezza.”( Giorgio caproni a colloquio con Cavalleri in Studi cattolici, Ottobre 1893)
Una solitudine profonda, endogena, ineliminabile, resa ancor più tragica dal pensiero del “dopo”, dall’angoscia per l’irrimediabilità degli eventi, dalla dolorosa consapevolezza che “Di noi, testimoni del mondo, / tutte andranno perdute / le nostre testimonianze. / Le vere come le false. / La realtà come l’arte. […]” (L’idrometra); l’Io solo ha ora trovato la “parete / in cui dobbiamo cozzare”, il muro che indica impedimento, ostacolo impenetrabile, separazione tra un qua ed un là che, entrambi, non ci è dato conoscere:
C’è un piccolo pazzo, nel mio libro, che vorrebbe forare quel muro, ma non per vedere cosa c’è di là, bensì cosa c’è di qua.
E a volte sembra che qua e là tragicamente coincidano in un “muro del nulla” che ci rimanda, alla fine, sempre e soltanto a noi stessi: “Cosa volete ch’io chieda. / Lasciatemi nel mio buio. / Solo questo. Ch’io veda.” (Istanza del medesimo); “[…] Dentro, / rimasto tutt’intero / col mio egoismo, il forno / cieco del mio sgomentato, / illacrimato altruismo.” (Il murato).
Dopo avere indagato la realtà con i sensi, prima, con la ragione poi:
“Ho già detto che sono un razionalista che pone dei limiti alla ragione. Nella sua continua ricerca (non importa di che) la ragione è sempre destinata a incontrare un muro (“il muro della terra” appunto) o un “ultimo borgo”, oltre il quale non può avere accesso: quelli che ho chiamato “i luoghi – per lei – non giurisdizionali”.
Questo, forse, perché l’uomo ragiona soltanto in quanto uomo: anzi, in forma di uomo. Ma com’è l’universo fuori dalla visione che lui ne ha?”

Il poeta è ora costretto a fermarsi, a dichiarare onestamente la propria (e umana) impossibilità di andare oltre:
Ho provato anch’io.
È stata tutta una guerra
d’unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.
(Anch’io)
Come scrive Luigi Surdich: “Caproni è il razionalista che razionalmente scopre i limiti della ragione, la barriera invalicabile del reale, il muro della terra, appunto.
L’unica certezza è l’impotenza, non disgiunta peraltro dalla coscienza della necessità di continuare l’indagine, di procedere nello scavo (nella “guerra / d’unghie”), per quanto inappagante e frustante.
Al poeta non resta che registrare i fenomeni, svelare il valore fittizio dei nessi di causalità che sembrano collegarli o l’inconsistenza illusoria dei legami di interdipendenza e reciprocità che sembrano metterli in rapporto tra di loro, manifestare i sussulti di una ribellione contro la tenace impenetrabilità dell’essere, ribellione votata a un destino di resa.” (Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, p.88)
Giorgio Caproni: la solitudine di morte.
La sezione Acciaio è centrata sul tema della guerra, qui utilizzata come simbolo della condizione umana: nella lotta – nella vita, c’è sempre un nemico invisibile che dobbiamo combattere e dal quale nasconderci.
Queste poesie ci riportano in luoghi bui, freddi, tristi, dove uomini stremati trasmettono sensazioni di morte ed impotenza: “S’erano rifugiati / dove? […]”, “[…] Esitarono, / le labbra schiuse. / Il gelo / della candela, certo / non bastava a chiarire / la situazione.[…]”, Acciaio; “Strisciarono ciechi. / Il viso tagliato dai fili / d’acciaio della pioggia. / Strisciarono muti. […]”, In bocca ; “Sono stremati. Tentano / (è l’ultimo sforzo) di issare / la bandiera. […]”, “[…] Hanno / l’occhio di piombo – il fiato / a pezzi. […]”, L’esito.
Riappare una lacerante solitudine di morte: “[…] Sanno / che lo sterminio forse / li ha preceduti. […]”, “[…] A chi, / si chiedono, annunziare l’esito, / se a valle li stanno a guardare / soltanto i morti, e alle spalle / la sodaglia del mare?” L’esito.
Siamo un deserto dove il tutto è diventato nulla:
Hanno bruciato tutto.
La chiesa. La scuola.
Il municipio.
Tutto.
Anche l’erba.
Anche,
col camposanto, il fumo
tenero della ciminiera
della fornace.
Illesa,
albeggia solo la rena
e l’acqua: l’acqua che trema
alla mia voce, e specchia
lo squallore d’un grido
senza sorgente.
La gente
non sai più dove sia.
Bruciata anche l’osteria.
Anche la corriera.
Tutto.
Non resta nemmeno il lutto,
nel grigio, ad aspettar la sola
(inesistente) parola.

E la solitudine connota anche la sezione successiva, Bisogno di guida, che ci porta in luoghi incerti dove neppure chi incontri è del luogo (“M’ero sperso. Annaspavo. / Cercavo uno sfogo. / Chiesi a uno. “Non sono,” / mi rispose, “del luogo.”, Bisogno di guida), dove c’è un esistere – non esistere, un io che viene ossessivamente ripetuto forse per poterlo credere reale.
Uno speciale grazie alla fotonarratrice Patrizia Traverso per le foto tratte dal libro Genova ch’è tutto dire – Immagini per Litania di Giorgio Caproni – di Patrizia Traverso e Luigi Surdich, il Canneto Editore, 2011
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