Alfonso Gatto, poeta e uomo del sud errante per l’Italia in cerca di lavoro, dopo aver girato per molte città lungo la sua vita, ha scelto Roma come ultima residenza, intorno agli anni Sessanta.
A Roma, il poeta teneva sempre pronta una valigia: per Gatto, d’altronde, la poesia era un continuo partire e ritornare dal proprio sguardo, lasciare continuamente un luogo per rimanervi ad aspettare sé stesso.
“Stanza al buio
I miei occhi mi lasciano partire
e mi aspettano calmi con la sera
nella povera stanza d’un albergo.
Alberghi, città, scale, sempre in sogno
varcati al dir: «qui resterò e la pace
mi sarà data alfine». Nulla resta
di quegli anni che un dolce e lungo errore,
e la memoria d’essere straniero
a tutti fuor che al cielo apparso ai vetri
bianco di luna.
A una voce ancora
lontana m’accompagno e credo buona
la vita se mi lascia in fondo agli anni
con quel cuore segreto che mi batte
sempre vicino e sempre solo”[1].
La sua emigrazione da Salerno, città natale, verso città del nord come Firenze, Milano e Bologna ha inizio negli anni Trenta. Ma la Capitale, allora considerata simile a Napoli, non era ancora prevista come meta.
Scrittore, pittore, giornalista, saggista, critico d’arte e di letteratura e intellettuale impegnato in politica, Alfonso Gatto è stato uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, tra i maggiori esponenti dell’ermetismo.
La poesia non gli darà da vivere ma sarà quella grazia “pagata con tutta la disperazione possibile” che lo accompagnerà per tutta la vita e in ogni suo viaggio.
Varie volte il poeta soggiornò a Roma per brevi periodi, alloggiando in case e alberghi situati in varie zone della città come via Flaminia, Viale Carso e Viale delle Medaglie D’Oro. Ma la casa che, forse, gli fu di maggiore ispirazione è stata una piccola abitazione adibita a studio in via Margutta.
Era una “piccola casa poetica” annoverata tra le molte dimore provvisorie del poeta: “Bella, bellissima casa tutta sfinestrata che ha tutte le apparenze di una casa provvisoria. Fu una donna a dirmelo: questa casa è troppo provvisoria, come se trovasse in questa immagine un simbolo se non della mia infedeltà, della mia mobilità affettiva. (…) Proprio questa casa, proprio per il suo candore, riuscirà a trattenermi in questa città che non amo. Forse la prima volta che amo Roma è attraverso questa stanza, questo cubo bianco che sta tra il Pincio e il Babbuino”[2].
Il senso di estraneità del poeta al locus amoenus della città richiama i cromatismi dell’ambiente come percezione pre-fenomenica che transita dalla storia al ricordo per risiedere in una notte ancestrale che fa ritorno dal giorno.
“Sera di Roma
O grande prateria del cielo, o rosa
decrepita, alle cupole sbandate
del temporale la città furiosa
delle speranze brucia l’estate.
L’odor di Villa Sciarra è autunnale,
piove dal verde muschio dei suoi marmi
sulla spoglia dell’aria con l’uguale
lentezza delle foglie, quasi a darmi
il ricordo dei secoli e dell’ora
vana che splende ai simulacri e all’erme.
Scesa al sepolcro già la terra odora
al suo buio gradito nelle ferme
chiese dove s’annuvola la notte.
E’ come un sogno s’io ricordi il nome
scritto sui marmi scritto sull’oblio,
dimenticato sulle fresche chiome
dei morti che ci dicono addio”.
Alfonso Gatto ha abitato anche dietro al Campidoglio, con lo spettacolo del Foro.
“Era una felice combinazione, due stanze che affacciavano con dei balconcini sul Foro, sull’allora via dell’Impero, sino al Colosseo, sino alla Basilica di Massenzio. Nelle notti d’estate, quando ero rimasto solo (…), mi ricordo che la sera mi mettevo quasi nudo sul letto, con questo bel fresco della casa tutta aperta, del cielo stellato che veniva dentro, io stavo lì sdraiato, fresco, sottovoce della strada, delle osterie, dei cocchieri, quel bel sottovoce notturno di Roma, che ora non si trova più, che non si ascolta più.(…) Ricordo una vera felicità fatta di nulla, terrestre”.
L’arsenale ideologico-culturale di Gatto era composto da un registro linguistico sottoposto a un costante labor limae che ne conferma, tutt’oggi, l’alta cifra stilistica e la sua capacità di rinnovamento e di auto-rigenerazione lirica.
L’isolamento rappresenta il veicolo psichico per un movimento riflessivo e di riflessione che documenta la cura estrema per la poesia classica in una convivenza pienamente virtuosa con le ascendenze letterarie della sua epoca.
“Neve
Un ultimo silenzio nella terra
si nega ogni rifugio
ed all’uomo propone la sua ombra.
Lascia odori timidi e pià
d’un bacio morto per sembianza”.
La notte è il più prossimo e intimo riferimento alla morte che trasuda dalla visione della terra, veglia sul commiato ai defunti e indica una via possibile di tregua dalla tensione tra l’esistenza e il vuoto, tra l’addio e l’abbraccio. L’endecasillabo imprime ritmo e scandisce pause e trepidazioni delle molte figure retoriche che compongono il senso – e non solo la forma – della lirica gattiana.
L’impegno civile talvolta affiora dal verso con l’uso della rima, quasi come una prosodia canzonatoria che restituisce la parzialità del dramma alla nettezza del tempo storico:
“Sicilia 1948
I nostri paesi in guerra
si gemmano di sale.
Il cavaliere del cielo
è un’ombra sulla terra
del grande piazzale.
L’afa, una voce che s’è fermata:
la morte nera sboccata.
Il canto s’è visto tacere
il canto s’è visto cadere.
Sola con sé povera cosa
la morte afosa,
la morte che non riposa.
Viva il re.
Nei secoli fedele
la mosca sul miele”.
Nella dicotomia estenuante dell’esistenza, la parola poetica si destreggia tra il luogo e l’immagine, tra la percezione comunicabile e l’intuizione tramandabile.
Il verso mantiene la postura della sua vocazione e resiste alla pressione del tempo se riesce a individuare nel linguaggio contemporaneo l’eco di un idioma universale.
[1] Tutti i testi poetici sono tratti dall’antologia “Tutte le poesie” di Alfonso Gatto, Mondadori 2017.
[2] Le parole fra virgolette sono riprese da un’intervista ad Alfonso Gatto presente negli archivi Rai: https://www.raiscuola.rai.it/letteraturaitaliana/articoli/2021/02/Alfonso-Gatto-lostinazione-di-vivere-ae1b189a-ac38-470c-a192-016496e73c53.html