Nata a Parigi, capitale della Francia ove furono assassinati il papà Carlo e lo zio Sabatino detto Nello per mano fascista, Amelia Rosselli trascorse vari periodi della sua vita da esule in Svizzera e negli Stati Uniti ma, di certo, la sua residenza ultima e di maggiore ispirazione è stata Roma.
“Quanto di storia però si comunica
Ai nostri indifesi ricordi –
Passò anche Amelia, volava come una tunica” scrisse Giovanni Giudici in “Il ristorante dei morti”[1] lasciando immaginare la sagoma esile e vibratile della poetessa che si aggirava per le vie del centro romano.
Da questi laconici e simbolici versi di Giudici è possibile fantasticare su questa donna sottile che, fermatasi a Roma dopo un lungo viaggiare, ha inizialmente abitato in un piccolo appartamento sul Lungotevere Sanzio, al numero 5, che condivideva con Dario Bellezza prima che litigassero.
Poi si trasferì in un altro piccolo appartamento a Borgo Pio, quel minuscolo e colorato agglomerato di case inglobato nella città, ai piedi del Vaticano[2].
Lì sembra che Rosselli abbia iniziato a scrivere il suo famoso “Documento”.
“Solo perché ci vengo hai una matita
per scrivere di orrori?
“Solo perché non ci vengo hai una matita
per scrivere di me?
Hai calzoni? Ho verde saliva.
Non vedo più i santi”.
L’ultimo domicilio di Rosselli, in cui la poetessa trascorse i suoi ultimi vent’anni, fu un appartamento al quarto piano di via del Corallo, tra piazza Navona e piazza del Fico, proprio vicino al vecchio Bar dell’Orologio in cui lei amava sedere in un tavolino in disparte e consumare la sua torta preferita, quella di mele.
Fu da quel monolocale di via del Corallo che, nella solitudine delle patologie che la affliggevano, si gettò sull’asfalto della chiostrina sottostante, in un freddo febbraio del 1996.
“Fui, volai, caddi tremante nelle
braccia di Dio, e che quest’ultimo sospiro
sia tutt’il mio essere, e che l’onda premi,
stretti in difficile unione, il mio sangue,
e da quell’inganno supremo mi si renda
la morte divenuta vermiglia, ed io
che dalle commosse risse dei miei compagni staccavo
quell’ansia di morire
godrò, infine,– l’era della ragione;
e che tutti i fiori bianchi della riviera,
e che tutto il peso di Dio
battano sulle mie prigioni”. (Variazioni Belliche – Poesie 1959).
Nonostante la drammaticità dell’incommensurabile e precoce perdita della poetessa più interessante e, contemporaneamente, più complessa del Novecento italiano, è il volo perpetuo, pindarico e iperbolico della sua parola che continua a stupire gli intelletti ancora inclini a un’idea di “umanesimo rivoluzionario” (Sara Sermini [3]) e a sfuggire da ogni catalogazione stilistica e ideologica.
“(…) E se paesani
zoppicanti sono questi versi è
perché siamo pronti per un’altra
storia di cui sappiamo benissimo
faremo al dunque a meno, perso
l’istinto per l’istantanea rima
perché il ritmo t’aveva al dunque
già occhieggiata da prima”.
Rosselli fa del linguaggio una politica della misura-non-calcolabile attraverso la creazione di una “poesia assoluta” (G. Giudici [4]) in cui la prosodia sfugge alla definizione di senso.
Il trilinguismo appare tra i suoi versi, talvolta caratterizzati da una voluta e confondente promiscuità idiomatica, a sancire – e non solo suggerire- l’apolidia endogena della parola poetica.
Le sue competenze di Teoria della composizione musicale fanno sì che “la riga del verso sia metafora del pentagramma” (G. Giudici), il suono infrange l’abitudine alla realtà, improvvisa quei “lapsus” fonetici che tra allitterazioni e paronomasie sanno trasmutare il gioco di parole nell’epica del dramma umano, ironizzato e ironizzabile con l’indolenza letteraria e filosofica di chi pronuncia il discorso del dolore lasciando profondere la dimensione personale in quella collettiva.
Una fervente dialogicità del verso di Rosselli si compie nella ricorrenza di un tu non individuabile, non oggettivabile e sfuggente nella misura della dissolvenza dell’io parlante.
“la mia fresca urina spargo
tuoi piedi e il sole danza! danza! danza! – fuori
la finestra mai vorrà
chiudersi per chi non ha il ventre piatto. Sorridente l’analisi
si congiungerà – ma io danzo! danzo! – incolume perché
‘l sole danza, perché vita è muliebre sulle piantagioni
incolte se lo sai. Un ebete ebano si muoveva molto
cupido nella sua
fermezza: giro! giro! come tre grazie attorno al suo punto
d’oblio!” (Variazioni Belliche).
Nella spregiudicatezza della narrazione rosselliana compare, quasi sempre, un dio ingombrante e nichilisticamente desiderato, rincorso con spasmo negli inferi più che nei cieli e, forse per questo, il volo definitivo di Amelia è stato all’ingiù, non fosse per la sua parola – preghiera ruggente e umanissima- che perpetua la sua ascesa nella terra libera del verso immortale.
La storia[5] è una competenza esistenziale che accomuna la molteplicità di forme, di espressioni, di indoli e di condizioni degli uomini, perfino vita e morte.
Benché il talento di Rosselli, la cui gittata va ben oltre le avanguardie e il loro fisiologico declino, sia ancora poco conosciuto tra i non addetti ai lavori, è stato scoperto grazie all’indiscussa arguzia critica di Pier Paolo Pasolini e fu apprezzato da firme emerite della poesia italiana del Novecento come Giudici, Raboni, Scotellaro, Levi, Zanzotto.
Il fascino dell’intangibilità ermeneutica del lemma poetico, però, non si esaurisce nella finitezza del testo e nella compagine assertiva del tempo. Rosselli vive ogni vita che ammette il dubbio e accoglie la criticità di ciascun periodo storico. Così un giovane poeta lucano dallo stile beat, Nunzio Festa, in una delle sue ultime opere le dedica una poesia dal titolo “Cara Amelia”:
“ogni volta si rompe lo specchio
ma io noi non corriamo verso
il buio di una luce stata
che si salva se arso
il terremoto del sentimento
perversione e innocenza cheta
riformano il viso dal ghiaccio” (Anatomia dello strazzo. D’inciampi e altri sospiri[6]).
La sagomatura del volto di Amelia Rosselli, scolpito dal rigore dell’esperienza e sfuggente come una statua di ghiaccio, sopravvive e si rigenera nello sguardo riflesso sullo specchio infranto della contemporaneità che, invece di far sparire gli occhi dalla visuale, li moltiplica nelle sue infinite schegge vaganti.
[1] Mondadori 1981.
[2] “Via degli angeli”, Angela Bubba e Giorgio Ghiotti, Bompiani.
[3] «E SE PAESANI / ZOPPICANTI SONO QUESTI VERSI» – Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli. Introduzione di Antonella Anedda. Olschki editore.
[4] Rosselli, Tutte le poesie. A cura di Emmanuela Tandello. Prefazione di Giovanni Giudici. Edizioni Garzanti.
[5]http://www.nuoviargomenti.net/poesie/unombra-di-umanesimo-rivoluzionario-su-amelia-rosselli/
[6] I Quaderni del Bardo edizioni.