Lele Luzzati

Lele e l’incanto della sua Arte applicata

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Nella seconda metà degli anni 70 inizia il rapporto di Lele Luzzati con la Galleria d’Arte Il Vicolo dove aveva iniziato ad esporre le sue  terrecotte e i bellissimi collage di carte e tessuti che lui assemblava e che venivano cuciti da sua madre. Fu con la mostra di illustrazioni, bozzetti di scenografie e frame dei suoi disegni animati del 1978 che la galleria, per accoglierla, si trasformò in una piccola sala cinematografica dove furono proiettati i suoi film d’animazione a ciclo continuo. Era stata allestita con un telone per proiezioni e una serie di panchette basse e per un mese si riempì di bambini. Dapprima di figli di amici e clienti della galleria e in seguito, grazie al passaparola, di tanti bambini della zona che si presentavano tutti i pomeriggi. Le vetrine della galleria, giorno dopo giorno, si riempirono dei loro disegni coloratissimi fino a diventare simili alle vetrate di una chiesa.

A quell’epoca Emanuele Luzzati, nato nel 1931 a Genova, scenografo, costumista, ceramista e illustratore aveva già maturato più di trent’anni di attività ed era notissimo in Italia e all’estero. I primi successi arrivarono nel 1948, a 27 anni, quando iniziò la sua collaborazione con l’allora Teatro Stabile di Genova dal quale nel 1949 ricevette il primo incarico di rilievo nazionale. Si trattava di Le allegre comari di Windsor allestito al Teatro dei Parchi di Nervi da Alessandro Fersen e interpretato da Paola Borboni, Anna Proclemer e Andreina Pagnani.  Poco dopo lo chiamò Vittorio Gassman che gli chiese di disegnare le maschere e i costumi di Peer Gynt allestito dal Teatro d’Arte Italiano. E poi arrivò l’opera. Nel 1952 disegnò le scene e i costumi per la sua prima opera lirica La diavolessa di Baldassarre Galuppi, messa in scena alla Fenice di Venezia da Corrado Pavolini e diretta da Carlo Maria Giulini. A questa seguirono opere realizzate con il Maggio Musicale Fiorentino e con il Teatro dell’Opera di Roma.

In quegli anni Lele vinceva il primo premio a Cannes per le sue ceramiche e, con le sue illustrazioni, partecipava ad una mostra collettiva con Aligi Sassu e Lucio Fontana. Era il 1957 quando disegnò la prima locandina per la Borsa di Arlecchino. Il suo primo cartone animato Pulcinella: il gioco dell’oca, realizzato con Giulio Gianini uscì nel 1959. Nel frattempo la sua carriera di scenografo proseguiva con la Cenerentola di Prokof’ev per il Teatro alla Scala. Partecipò alla fondazione nel 1961 della Compagnia dei Quattro, insieme a Glauco Mauri, Valeria Moriconi e Franco Enriquez. Per loro disegnò le scene e i costumi di una memorabile edizione della Bisbetica domata che la Compagnia dei Quattro avrebbe replicata per dieci anni in Italia e all’estero. Con le scene de La baracca, un collage di atti unici di Garcia Lorca rappresentato alla Biennale di Venezia del 1960, vinse il prestigioso Premio San Genesio.

Lele Luzzati era molto apprezzato e amato anche all’estero. La sua consacrazione internazionale, grazie al successo ottenuto al Festival di Glyndebourne con Il flauto magico di Mozart diretto da Franco Enriquez, avvenne nel 1963. Da allora divenne per un decennio un collaboratore abituale del Festival e di altri teatri inglesi. La sua fama arrivò anche negli Stati Uniti dove nel 1965 l’Opera di Chicago gli commissionò le scenografie di due spettacoli, i Carmina Burana di Carl Orff e L’heure espagnole di Maurice Ravel. L’affermazione a livello mondiale di Luzzati fu confermata dalla nomination al Premio Oscar nella categoria del migliore cortometraggio animato, ottenuta dal film d’animazione La gazza ladra, arrivò nel 1966. Intanto in Italia realizzava il cartone animato che accompagnava i titoli di testa del film L’armata Brancaleone di Mario Monicelli. In quegli anni Luzzati lavorava a Vienna, Bratislava, Londra, Monaco di Baviera ma anche a Genova dove nel 1968 iniziò il suo sodalizio con Tonino Conte. Era il 1973 quando Luzzati e Giannini realizzarono il cortometraggio Pulcinella che l’anno successivo ottenne una seconda candidatura agli Oscar. Poi arrivò il Teatro della Tosse che Luzzati fondò assieme ad Aldo Trionfo e Tonino Conte nel 1975 per il quale avrebbe realizzato scene e costumi lungo il resto della sua esistenza. In seguito ci furono le collaborazioni con Gianni Rodari e il libro Dodici Cenerentole in cerca d’autore realizzato sui testi della giornalista Rita Cirio. Questo è il periodo in cui inizia la sua collaborazione con il Vicolo.

Parto dall’episodio che racconta l’attenzione di Lele per i bambini e chiedo ad Ambra, figlia di Piera Gaudenzi creatrice del Vicolo, che oggi gestisce la galleria di raccontare come lo ricorda.

Ho conosciuto Lele da ragazzina, in occasione della sua prima mostra quando ha esposto da noi le sue terrecotte e i ritagli cuciti. Con i miei genitori aveva già un rapporto di stima e di amicizia ma per me erano le prime esperienze di lavoro e lui mi ha dato subito un insegnamento. Ricordo che mi muovevo in galleria con un atteggiamento titubante e Lele, con l’esperienza che gli veniva dal teatro, mi ha insegnato come trasformare rapidamente uno spazio. Nella sala che doveva ospitare le sue sculture, abbiamo dipinto di nero degli elementi in legno creando un effetto scenografico e in poche ore ci siamo ritrovati in un ambiente completamente rinnovato e perfetto per ospitare le sue opere. Il mio primo approccio con la persona, oltre che con l’artista, è stato amicale, molto tranquillo e sereno perché lui era una persona molto serena. Nella mostra successiva, con mia madre Piera, abbiamo creato una stanza in cui i bambini potessero vedere i suoi disegni animati. Ricordo ancora la sua espressione sorpresa e felice quando l’ha vista. Lui viveva di queste piccole cose gioiose che sapeva cogliere ovunque e che gli davano un grande piacere.

La sua tranquillità era il suo tratto saliente?

Emanava questo senso di tranquillità che a volte poteva sembrare ingenuità, cosa che non era in realtà. Aveva un modo molto quieto di porsi che però celava una profonda riflessione. Non è facile definire Luzzati: a molti sembrava che avesse un legame importante con il mondo infantile ma io credo che nell’illustrazione avesse metabolizzato l’infanzia per poter arrivare ad un mondo artistico molto adulto. Se si rivolgeva ai bambini il suo linguaggio pittorico doveva essere un linguaggio che i piccoli potessero capire. Ma questo stesso linguaggio piaceva tanto anche agli adulti che era capace di riportare alla dimensione dell’infanzia, come se di fronte ai suoi lavori chi li guardava si fosse trovato di fronte ad un suo personale vissuto recuperato. Per cui sì, lui i bambini li conosceva bene ma soprattutto Lele aveva mantenuto una relazione con la sua infanzia. Spesso raccontava che fin da piccolo si divertiva a creare teatrini per la sua sorellina e che aveva avuto la fortuna di poter continuare tutta la vita a fare quello che gli piaceva di più.

Il suo lavoro partiva sempre da una committenza?

Non sempre ma nella maggior parte dei casi sì. Un giorno me lo ha spiegato molto bene: l’illustratore come lo scenografo, lavora all’interno di una gabbia. Devo illustrare la Cenerentola? E allora tirerò fuori la storia del principe azzurro che va a cavallo e di una fanciulla bellissima  che dorme vicino al camino rispettando i limiti imposti dal numero delle pagine assegnate. Lo stimolava lavorare all’interno di una gabbia che gli imponeva di superare degli ostacoli.  Che poi lui riuscisse a non creare una mera illustrazione legata a quella mera pagina scritta ma che quell’illustrazione diventasse un fatto artistico questo era dovuto al suo grande talento. Lui chiedeva sempre cosa vuoi che ti faccia? Perché partiva sempre da quella che era la sua origine: la scenografia che doveva corrispondere all’opera o al testo teatrale, che doveva essere realizzata d’accordo col regista di cui doveva mantenere l’impronta. E lo stesso valeva per un libro illustrato o, con noi in galleria, nel nostro rapporto durato tanti anni e legato alla grafica e alle serigrafie che abbiamo fatto con lui.

Nella ceramica aveva più libertà?

Non è che lì avesse più libertà perché ha realizzato tantissimi lavori che spesso erano destinati a decorare i grandi saloni delle navi. Si trattava di pannelli che finivano su una parete, e anche lì doveva rispettare delle misure, ma certamente era libero di scegliere di lavorare sui temi che quegli spazi gli ispiravano. Le sue ceramiche e i suoi bassorilievi sono tantissimi e si trovano ovunque a Genova. Quando abbiamo esposto le sue terrecotte negli anni settanta quelle erano veramente sculture che prescindevano da una richiesta: erano le opere che amava realizzare perché amava lavorare la terra che considerava la sua materia. La terra che amava trattare e dipingere quando poteva farlo al Pozzo Garitta che a quel tempo disponeva di un bellissimo forno a legna.

Lele si è trovato benissimo lavorando in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, in Russia, in Austria…

E’ vero. Anche se apparentemente non era una persona estremamente comunicativa, era piuttosto riservato, riusciva ad entrare in contatto con le persone perché aveva una estrema semplicità nel porsi. Ma Lele era anche senza remore e non aveva filtri. Se aveva un’idea, o un’opinione, in maniera gentile e pacata, la difendeva.

Come ha accolto l’apertura del Museo Luzzati?

Quando succedeva che ricevesse un riconoscimento, che fosse un premio o la creazione del museo che gli era stato intitolato, la sua contentezza conteneva sempre una vena di stupore. Lui non si considerava un artista, sosteneva sempre che le sue erano solo arti applicate. Le mostre per lui sono state la conseguenza di un lavoro del tutto diverso. Era illustratore, scenografo, ceramista, decoratore. Realizzare cartoni animati, Iavorare in teatro, illustrare libri, quello era il suo modo di mostrarsi al pubblico. Normalmente l’artista senza una mostra non ha visibilità: deve avere un posto in cui esporre. Lele non ne aveva bisogno, era più un’esigenza delle varie gallerie esporlo per presentare e vendere i suoi lavori. Lele Luzzati era così conosciuto e amato che, anche se le mostre gli facevano piacere, e capitava che con noi partecipasse al loro allestimento, non sentiva l’esigenza di vedere esposte le sue opere. Ma gli piaceva seguirne alcune. Avevo acquistato un camino di ceramica che lui aveva realizzato e regalato a Lucio Fontana e che, alla sua morte, la vedova aveva offerto alla Croce Rossa Italiana. A lui piaceva che questo camino in qualche modo fosse tornato a casa nella Genova che tanto amava e in particolare in Spianata Castelletto dove io abito ancora e dove, esclusi gli anni di esilio, per tutta la vita ha abitato anche lui.

(Fine prima parte)

Ginni Gibboni

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Ginni Gibboni è curatrice e responsabile di “Spotlight” newsletter settimanale dedicata agli eventi culturali di Genova e dintorni. Per ricevere Spotlight gratuitamente inviare nome, cognome e indirizzo e-mail a ginnigibboni@gmail.com

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