Benjamín Labatut, Maniac, Adelphi 2023
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“Il pericolo non sta nella natura particolarmente distruttiva di una specifica invenzione. Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c’è cura.”
La scorsa estate quando uscì il nuovo libro di Benjamín Labatut per Adelphi nella collana Fabula, felice, registrai che avrei voluto leggerlo quanto prima; non soffermandomi su nessuna recensione o critica, pensavo che questa volta avesse scritto un romanzo, la storia intrigante di un’ossessione, qualcuno accecato da una passione maniacale per una persona che non riusciva a raggiungere.
Non si tratta di un romanzo ma la trama non si presenta poi così diversa: leggendo il libro ho scoperto che la linea narrativa è quella consueta: voci e scenari della storia ottonovecentesca riformulati dall’immaginazione dell’autore.
Da questi ipotetici resoconti di vita emerge la figura di un matematico ungherese di straordinaria genialità, Jànos Lajos Neumann (1903/1957), e la sua ossessione paranoide che non si riversa su una persona ma su un progetto, un destino: risolvere il mistero della nostra esistenza per mezzo di equazioni; dare un senso definitivo e razionale alla vita: interpretarla comprenderla definirla con inconfutabile coerenza, una coerenza raggiunta ad ogni costo per mezzo della scienza – la strenua difesa della logica contro le forze del caos.
Sono gli anni Quaranta quando Johnny Von Neumann progetta l’architettura di EDVAC (acronimo per Electronic Discrete Variables Automatic Calculator), ovvero il primo rudimentale computer digitale che divenne operativo nel 1949 negli Stati Uniti – dove Jànos emigrò per sfuggire alle persecuzioni naziste, dove ottenne la cittadinanza nel 1937 e dove cambiò nome.
Aneddoto dopo aneddoto, Labatut delinea la fissazione di quest’uomo sovraumano per se stesso, per il suo cervello, per il bisogno spasmodico di lasciarci un lampo della sua grande chiarezza, della sua verità; la ricostruzione è ancor più accattivante perché parte dal presupposto che fosse intenzione di Neumann infondere parte delle sue facoltà intellettive – del suo sistema di razionalizzazione maniacale – all’interno del processore di MANIAC, il calcolatore che stava progettando (e mettendo in funzione) e da cui gran parte del sistema sociale sarebbe stato condizionato.
Se, facendo un parallelo, osserviamo l’ossessione morbosa con cui oggi ci si relaziona alla realtà digitale (ETIMO dall’ingl. digital, der. di digit – dal lat. digĭtus ‘dito’ – ‘cifra – di un sistema di numerazione) è affascinante pensare che il progetto raffigurato da Labatut potrebbe essere andato proprio così: la paranoia di un genio che filtra nel codice binario da lui stesso generato e lentamente dilaga fino a noi – molti dei suoi possibili usi diventeranno evidenti solo dopo che sar. stato messo in funzione.
A questo proposito, tra le numerose voci del libro che raccontano gioventù opere quotidianità di Neumann, alla seconda moglie dello scienziato, Klara Dan, lo scrittore fa confessare: «quando Johnny cominciò a dilettarsi di biologia, io mi preoccupai moltissimo di quel che avrebbe potuto fare. A differenza della matematica e della fisica, quel campo della scienza era ancora immune dalla logica, governato da strane forze del caso e del caos che ancora non siamo in grado di assoggettare e sfruttare».
In conclusione, quello che voglio sottolinerare è che Maniac è un libro di finzione basato sulla realtà da cui emergono molti momenti anche drammatici della nostra Storia; e che tra le righe tocca delle corde sensibili che vibrano sulla nostra percezione della contemporaneità, di un progresso incomprensibilmente veloce e complicato.
Una lettura che sfuma in una punta di amaro e spinge nella parte finale del volume, quando ci si immerge nella sfida tra Lee Sedol, il leggendario giocatore coreano di go, e l’intelligenza artificiale AlphaGo – Google DeepMind Production. Una lotta che sembra rappresentare la resistenza suprema dell’aura di inspiegabile che da sempre ha circondato il luogo della coscienza e della forza risolutiva di istinto e intuito.
Zhemao