Non sono un mostro, io

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Il saggio di Claire Dederer, MOSTRI Distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan, pubblicato da Altrecose nella traduzione di Sara Prencipe con una prefazione di Giulia Siviero, inizio a leggerlo casualmente nei giorni in cui si sollevano le polemiche intorno ad Alice Munro (1931/2024), scrittrice canadese e premio Nobel, a causa dell’accusa che sua figlia, Andrea Robin Skinner, ha portato all’attenzione dei media, e secondo la quale la madre non si sarebbe mai separata dal secondo marito – né avrebbe mostrato verso di lei alcun tipo di solidarietà – nonostante la denuncia delle molestie e dei ripetuti stupri che quest’uomo le inferì durante l’adolescenza.

Mi interesso alla questione incontrando un’amica, lettrice appassionata dei racconti di Munro, per via del suo disappunto misto a delusione rispetto al nuovo approccio che, teme, avrà nel leggere le opere: impossibile non caricare di nuovi significati e interpretazioni i contenuti di quelle storie che fino ad allora aveva considerato arte invenzione mimesi; novelle che si ammantano di una torbida verità.


Il punto focale del saggio di Dederer è proprio questo, la contaminazione: «oggi è impossibile liberare l’opera dalla biografia. Ci siamo immersi, nella biografia, ne siamo nauseati».
In questo libro, una Storia o Autobiografia del pubblico, Dederer indaga e osserva i casi noti – notissimi – che hanno visto fan di tutto il globo brancolare nel dubbio del secondo Novecento: distinguere o non distinguere la vita dall’opera? ad un genio può essere perdonato ogni eccesso in misura della sua espressione? .



Roman Polańsky, Vladimir Nabokov, Woody Allen, Pablo Picasso, J.K. Rowling, Virginia Woolf, David Bowie, Ernest Hemingway sono solo alcuni dei nomi sui quali l’autrice si interroga e di cui ripercorre le biografie macchiate, parzialmente oscure.
Le direttrici del suo pensiero prendono strade diverse, difficile seguirle senza provare esitazione di fronte ad alcune posizioni contraddittorie, o non del tutto centrate.

Tuttavia, la lettura è stimolante perché la stessa Dederer ne è consapevole, e non si dà pace per la mancanza di una risposta univoca, sicura: non ci sono accordi possibili né armistizi in vista nel confronto tra il concetto di esperienza soggettiva e critica autorevole dell’arte. 
Mentre con un caro amico ragiona dell’antisemitismo di Virginia Woolf, Dederer si sente rispondere: «Guarda che, se buttiamo via gli antisemiti, buttiamo via tutti».

Spinta dalle sue considerazioni, riflettevo invece sul fatto che Truman Capote quando pubblicò Preghiere esaudite pagò la sua lucidità, il suo sarcasmo e il suo sguardo distaccato con l’isolamento sociale. Claire Goll quando scrisse le sue memorie in quell’incredibile libro che è Cercando di afferrare il vento (Prospero edizioni) non fece altro che descrivere, nello stesso stile spietato, un mondo di artisti e bohémien costantemente intriso di invidie violenze morbosità. Giambattista Marino, nel XVII secolo, si prese a pistolettate per un dissing poetico; Michelangelo Merisi fu assassino e a Michelangelo Buonarroti disegnarono i braghettoni. Insomma, da sempre una sequela di grandezza rovina. 


Per tornare al dubbio su cui si arrovella Dederer: oggi siamo più illuminati? Possiamo pretendere che l’opera d’arte sia generata solo da persone che non mostrino carenza etica – vivere in un mondo innocente di brave persone che creano belle opere d’arte?
Eppure questo non è mai stato e, aggiungo io, non si dà il caso che possa esser mai.

«Spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso
allora voglio scappare, scappare
ma non posso, non posso fuggire
…»
Così Fritz Lang, con lo straziante monologo recitato da Peter Lorre, nel 1931 immergeva magistralmente il suo sguardo sul concetto di abiezione, girando M – il Mostro di Dusseldorf, clamoroso capolavoro cinematografico che è sempre sempre bene ricordare rivedere riscoprire.

Zhemao

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