Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.
Giorgio Caproni: Realtà irreale e solitudine senza Dio. “Il franco cacciatore”
Già dal Seme del piangere Giorgio Caproni ha scoperto l’importanza di un’idea guida o di un tema prevalente. Le sue raccolte ruotano intorno ad un nucleo centrale per poi espandersi in continue variazioni sul tema.
“La frantumazione dei libri e delle singole poesie richiede ancor più una lettura continua: difficile estrapolarne i singoli componimenti senza il rischio di fraintenderli, di riceverne un’eco parziale, di perderne il complesso gioco di rapporti e di contrapposizioni”. (A. Dei, Giorgio Caproni).
Per quanto riguarda specificamente Il franco cacciatore (edito da Garzanti, Milano, 1982) si può notare come “ogni singola sentenza possa essere seguita dal suo rovescio, da aggiustamenti e obiezioni. Le diverse voci che interloquiscono mutano tono e timbro, si rispondono e si riecheggiano in indiretti dialoghi a distanza. Quanto più certa e definitiva sembra un’affermazione, tanto più viene subito dopo ribaltata, saggiata nel suo logico contrario, o messa in dubbio.” (A. Dei, Giorgio Caproni)
“Nel franco cacciatore si ampliano maggiormente gli spazi bianchi, gli accapo, le distanze fra i versi, circondati anch’essi dal vuoto e dal silenzio. Il residuo filo narrativo si svolge attraverso plurime pause, correttivi, obiezioni, dubbi e aggiustamenti.
Sempre più frequenti e importanti i segni che lo frantumano, ne sottolineano le riserve e le incertezze: puntini di sospensione, parentesi, lineette, che acquistano quasi il peso di vere e proprie parole. In particolare la parentesi non viene quasi mai usata da Caproni per introdurre un inciso, a interrompere il discorso principale, ma aggiunta in totale indipendenza sintattica (spesso preceduta e seguita da un punto).” (A. Dei, Giorgio Caproni)
Nel Muro della terra il viaggio sembrava inevitabilmente terminato: l’Io “murato”, “stravolto” e “cercatore” pareva aver compiuto l’itinerario, ma lo ritroviamo, invece, nuovamente sdoppiato nei panni del cacciatore.
Nell’Antefatto il poeta lo attende seduto davanti a un’osteria sul margine del bosco, i luoghi di svolgimento della raccolta:
Sedetti fuor dell’osteria,
al limite della foresta.
Aspettai invano. Ore e ore.
Nessun predace in cresta
apparve della Malinconia.
Aspettai ancora. Altre ore.
Pensai, in straziata allegria,
al colpo fulminante
del franco cacciatore.
Il franco cacciatore esce sette anni dopo Il muro della terra, ma appare evidente una loro intima continuità di contenuti.
L’affannosa ricerca di un oltre il muro prosegue e diventa caccia, insistente tentativo di prendere la mira, di puntare un Lui che potrebbe essere addirittura Dio. La prima sezione della raccolta, Lui, inizia proprio segnalando l’incerta natura del bersaglio cui tendere:
L’occasione era bella.
Volli sparare anch’io.
Puntai in alto. Una stella
o l’occhio (il gelo) di Dio?
(L’occasione)
L’uccisione di Dio costituirebbe un’inconfutabile prova della sua esistenza, ma vedremo come le poesie successive continueranno a mettere in dubbio tale possibilità.
L’uomo continua ad apparire un essere solo e smarrito, quasi un’illuso nella sua ossessiva ricerca di una preda che nessuno pare aver mai visto:
Il guardacaccia,
con un sorriso ironico:
– Cacciatore, la preda
che cerchi, io mai la vidi.
Il cacciatore,
imbracciando il fucile:
– Zitto. Dio esiste soltanto
nell’attimo in cui lo uccidi.
(Ribattuta)
Eppure sono tutti intenti a perseguire l’obiettivo, anche se le scene di caccia sembrano avvenire in tempi e spazi irreali (“[…] Sono / tutti nel bosco. / Tutti / alla battuta. / Dicono / che solo ritorneranno / a opera fatta. / È un anno, / più d’un anno, ormai.[…]”, Lui).
Il cacciatore punta il bersaglio: Dio.
Come in un incubo la “realtà irreale” di Caproni è oramai divenuta l’unica realtà possibile.
Percorsi compiuti o da compiere, personaggi incontrati, oggetti apparsi, luoghi visitati, parole pronunciate: tutto appare incerto e sfuocato.
È una realtà onirica che esiste pur non esistendo e dove le azioni che si compiono, in realtà non si sono mai compiute: “[…] Quello che ritroveranno, / non se l’aspettano: lui, / che loro hanno ucciso, qui / più vivo e più incombente / (più spietato) che mai.”, Lui; “Non è arrivato nessuno. / Tutti sono scesi. […]”, “[…] Lo avremmo / pugnalato, lui / (l’ultimo!) che pur poteva, / doveva necessariamente / esser lui, se lui / non era giunto. […]”, Determinazione; “[…] Se volete incontrarmi, / cercatemi dove non mi trovo. […]”, Indicazione.
L’uomo solo non può più aggrapparsi neppure alle sue percezioni sensoriali: sono anch’esse falsate, irreali, sottolineano crudamente la sua non appartenenza a nessun luogo e a nessun tempo ed è certo che in questo “nessun dove” e “nessun quando” si è proprio irrimediabilmente, impotentemente soli nel Nulla, (“[…] Abbiamo / voltato le spalle al vuoto / e al fumo. / Abbiamo / scosso le spalle. / Faremo, / ci siamo detti, senza / di lui. / Saremo, / magari, anche più forti / e liberi. / Come i morti.”. Determinazione), nella solitudine che Caproni descrive in uno dei due Inserti in prosa della raccolta:
“Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere a Dio. Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio.
Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e trasparente (e tagliente) come l’ossidiana. L’allegria ch’essa può dare è indicibile. È l’adito – troncata netta ogni speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo – definitivamente – che Dio non c’è e non esiste.” (Giorgio Caproni, Poesie, cit. p. 439)
Il libero arbitrio dell’uomo, dunque, che deve necessariamente oltrepassare il limite imposto da un’atavica ed istituzionalizzata esistenza di Dio, un Dio da uccidere per renderlo vivo, ma ugualmente lontano dall’uomo:
“Dio, se c’è, è un dio serpente, un dio che non remunera, non redime. Cristo, infatti, non è mai presente nelle mie poesie; come non è presente la Provvidenza perchè, appunto, non c’è. […] Dio mi appare proprio come quell’universo insensibile, quel freddo primo motore immobile che da tempo abbiamo tutti ucciso nella nostra coscienza, e che però sopravvive come feticcio, in tutte le religioni organizzate.” (Credo in un Dio serpente, intervista di Stefano Giovanardi, “la Repubblica”, 5 gennaio 1984)
Un Dio che l’Io del poeta, il cacciatore, si ostina a cercare formulando, nel corso della raccolta, varie ipotesi che lo possano in un qualche modo consolare del mancato risultato della sua “caccia” (“[…] M’accecò un lampo. Sparai. / (A Dio, che non conosco?), Preda; “Non mi ha risposto. / Gli ho scritto tante volte. / Non mi ha mai risposto. / Io credo che sia morto. Non penso / che si tenga nascosto.”, Benevola congettura).
L’esistenza di Dio permetterebbe all’uomo di credere, se non altro per un atto di fede, all’esistenza di una qualche sopravvivenza post-mortem, ad una sorta di “risarcimento” per la sofferenza e la solitudine patite sulla terra.
La ragione ha già mostrato il suo invalicabile limite e non può certo essere rimpiazzata da una fede di comodo che possa salvare l’uomo dal dilagante nulla (ricordiamo che il “preticello” prega “non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista”, Lamento (o boria) del preticello deriso): si è già arrivati alla “disperazione / calma, senza sgomento”.
Stoicamente si è accettata l’inconsistenza della realtà ed il proprio destino di morte, ci si è liberati dal fardello di inutili speranze, si può addirittura essere contenti, soli nel vento della morte (“Faceva freddo. Il vento / mi tagliava le dita. / Ero senza fiato. Non ero / stato mai più contento.”, Allegria).
Riproduzione Vietata
Un ringraziamento speciale alla fotonarratrice Patrizia Traverso per le foto