Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.
Il viaggio deve continuare: l’ incontro – scontro con Dio.
Il viaggio, lo scavo nella “guerra / d’unghie”, come abbiamo detto deve in ogni caso continuare, anche se è un viaggio del quale, a dire il vero, non si sa niente di preciso, non si sa se sia già stato effettuato in parte e si sia giunti ormai alla fine, o se invece sia ancora tutto da fare; c’è chi chiede informazioni sul luogo, chi dovrebbe funger da guida con una lanterna che non illumina il troppo fitto buio e chi percorre e ripercorre strade che in realtà non esistono e non sono state mai percorse.
Il viaggiatore è solo con il suo Io, anzi, con i suoi molteplici Io: egli è di volta in volta “il murato”, “lo stravolto”, “il cercatore” che dialoga con altri che non esistono, con un Dio che non esiste, o, se esiste, si è nascosto; che osserva un padre che non si è neppure certi che sia lui e che comunque, così come appare, subito dopo scompare.
Le immagini dei luoghi (reali o irreali?) sono di nuovo caratterizzate dal buio, dalla notte, dal silenzio, dalla nebbia. Le parole adoperate da Caproni sono quasi tutte di poche sillabe, sono scarne, lo stile è essenziale, crudo, perfettamente aderente allo stato d’animo del viaggiatore non più cerimonioso, ma disperatamente impotente dinanzi all’insuperabile muro.
In una condizione esistenziale caratterizzata da un’irrimediabile solitudine, da un’estrema concretezza dell’irrealtà, da un tutto diventato nulla, dall’inutilità della “guerra / d’unghie” si insinua, dapprima il lacerante dubbio dell’esistenza di Dio, poi il rancore per il suo non esistere.
Mi preme, in riferimento alla figura di Dio, riportare quanto Caproni stesso scrisse:
Quanto al “problema dell’esistenza di Dio”, preferisco non parlarne. Mi porterebbe a un discorso troppo complicato e anche difficile.
Resti però ben chiaro che sotto il nome “Dio” non intendo nessuna delle personificazioni fatte dalle varie religioni, diciamo così, istituzionalizzate. (Da una lettera di Giorgio Caproni alle allieve della IIA, Resine, 1991)
Se nel Congedo erano gli “altri Io” a parlare della cruda realtà della vita (l’uomo solo, la guida, il guardacaccia) e soprattutto i pensieri su Dio erano affidati al “preticello”, ne Il muro della terra assistiamo ad uno scontro più intimo ed interiore, ad una sorta di sdoppiamento Io – Dio, dove non si ha certezza né dell’uno, né dell’altro, ma dove entrambi vengono affannosamente cercati ed inseguiti: le parole Io e Dio sono ossessivamente ripetute ed accostate, quasi che a furia di ripeterle si possa dimostrare la loro esistenza.
(“Partivan tutti e addio / e addio e addio e a Dio. / Soltanto chi non partiva (io) / partiva in quel rimescolio.”, Tristissima copia ovvero Quarantottesca; “Piaccia o non piaccia!” / disse. “Ma se Dio fa tanto,” / disse, “di non esistere, io / quant’è vero Iddio, a Dio / io Gli spacco la Faccia.”, Lo stravolto; “ […] Io non son tipo, io / (fosse o non fossi Dio) / da sopportare un torto.”, Coda alla confessione; “ […] E io, / io allora, qui, / io cosa rimango a fare, / qui dove perfino Dio / se n’è andato di chiesa, […]”, Lasciando Loco.).
È una teologia negativa quella di Caproni che cerca di giungere a Dio attraverso la sua negazione: i versi via via sempre più scarni e brevi scandiscono le tappe di un viaggio che è ricerca di un Dio irreperibile ed assente (sempre ammesso che esista!).
Un Dio “nascosto” in luoghi affollati, addirittura in bar, osterie, alberghi, stazioni e treni: ed è proprio in questa insolita toponomastica la splendida originalità della “poesia teologica” di Caproni.
L’Io alla ricerca di Dio è un Io inquieto (“[…] Ah, mio dio. Mio Dio. / Perché non esisti?”, I coltelli) e che addirittura si arrabbia con Dio e lo minaccia, nel caso non esistesse: “[…] Il bambino [..] come potrà, mio Dio, / come potrà poi senza / odio perdonarti il furto / della tua inesistenza?”, Cantabile (ma stonato); “[…]Ma se Dio fa tanto,” / disse, “di non esistere, io, / quant’è vero Iddio, a Dio / io Gli spacco la Faccia.”, Lo stravolto.
E’ un Io che va a cercare Dio e lo insegue, ma ricordiamoci che la raccolta è caratterizzata dal coesistere degli opposti e delle affermazioni assurde (luoghi che esistono e non esistono, partenze che non sono tali, ma neppure arrivi ecc.): “Sapevo che non l’avrei trovato / a casa, quel giorno. / Per questo avevo scelto quel giorno / per andarlo a trovare. […]”, “[…] Non c’era. Avevo ragione. / Così, venne lui in persona / ad aprirmi. […]”, “[…]Non era stato prudente, / quel giorno. Si fosse trovato / in casa, non mi avrebbe / aperto. O forse mi avrebbe / spinto giù per le scale. / Mi avrebbe salvato, / comunque. Non mi avrebbe / (io non lo avrei) accoltellato.”, Testo della confessione; “[…] Ma – certo – se non fosse morto / (se io non fossi morto) / – certo – lo avrei perdonato. / Io non son tipo, io / (fosse o non fossi Dio) / da sopportare un torto.”, Coda alla confessione.
Le semplici e scarne parole continuano, con la forza di ripetute sassate, a delineare un’esistente – inesistente figura di Dio: “Un semplice dato: / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato.”, Deus absconditus; “(Non ha saputo resistere / al suo non esistere?)”, Postilla; “Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati!), a furia d’insistere / – almeno – d’esistere.”, Preghiera d’esortazione o d’incoraggiamento; “Sta forse nel suo non essere / l’immensità di Dio?”, Pensiero pio.
E la dichiarazione d’inesistenza di Dio diventa dichiarazione dell’inesistenza dell’Io protagonista, degli altri, dei vivi, dei morti, dei luoghi, del tempo, dello spazio: tutto ciò che sembra esistere esiste solo come incerta rappresentazione mentale.
“Arrivato ‘al limite della salita’ il poeta sceglie l’ultima, l’estrema delle sue metafore: si scopre, si riconosce fedele di una religione che è religione del vuoto, di ciò che non c’è, di un Dio che non esiste o che esiste, come dice il cacciatore della prima poesia, ‘soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi’ o che, come si afferma in un’altra poesia, dev’essere cercato ‘dove non si trova’. Esilio di Dio, esilio dell’uomo da Dio, cioè da ogni cosa e da ogni luogo.”
(G. Raboni, Caproni al limite della salita, Paragone, dicembre 1997)
I luoghi della raccolta sono bui, silenziosi, pieni di nulla: “[…] Insieme, / presto ritorneremo / nel nostro nulla – nel nulla / (insieme) rimoriremo.”, Su un’eco (stravolta) della Traviata; “… là dove nessuna mano / – o voce – ci Raggiungerà.”, Nibergue; “[…] Vuoto delle parole / che scavano nel vuoto vuoti / monumenti di vuoto. […]”, Senza esclamativi.
Non è rimasto niente e nessuno:
Sono partiti tutti.
Hanno spento la luce,
chiuso la porta, e tutti
(tutti) se ne sono andati
uno dopo l’altro.
Soli,
sono rimasti gli alberi
e il ponte, l’acqua
che canta ancora, e i tavoli
della locanda ancora
ingombri – il deserto,
la lampadina carbone
lasciata accesa nel sole
sopra il deserto.
(Lasciando Loco)
Solo oggetti superflui ed un vento che anch’esso sembra aggiungere vuoto al vuoto:
Il vento… È rimasto il vento.
Un vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
muove su e giù sul grigio
dell’asfalto. Il vento
e nient’altro. […]
[…]
Il grigio
del vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta. Un vento
lasco e svogliato – un soffio
senz’anima, morto.
Nient’altro. Nemmeno lo sconforto.
Il vento e nient’altro. Un vento
spopolato. Quel vento,
là dove agostinianamente
più non cade tempo
(Dopo la notizia)
È rimasto nessuno (“Chi sia stato il primo, non / è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo. / Poi, uno dopo l’altro, tutti / han preso la stessa via. / Ora non c’è più nessuno. […]”, Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia.).
E nel vuoto, nel nulla esistente è difficile mantenere la coscienza d’esistere: al di là dell’evidenza (“Because my name / is / George.”, Ragione) si perde la percezione del proprio Io che va a confondersi, a sdoppiarsi in altri Io (realmente?) esistenti, un Io doppio, altro, ma che ugualmente intravede una profonda solitudine (“[…] Meglio – lo so – è ch’io vada / prima che me ne vada anch’io. […]”, “[…] Non sono, con me stesso, / ancora solo. / E solo / quando sarò così solo / da non aver più nemmeno / me stesso per compagnia, / allora prenderò anch’io la mia / decisione. […]”, Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia; “[…] Nessuno s’era affacciato / (nemmeno io) alla finestra.”, Compleanno; “[…] Ma ero io, era lui? […]”, Andantino.
L’immobile sosta nel nulla.
Dubbi, incertezze e contraddizioni si estendono anche ai luoghi percorsi (o non percorsi?), la realtà si restringe ulteriormente, è poca cosa in confronto a ciò che non è stato, che non è, che non sarà mai.
Si noti la differenza, il dilagare del nulla, tra Toba del Congedo e Ritorno de Il muro della terra:
Sono stato là
dove non si può tornare.
Tutto è come fu. […]
(Toba)
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
(Ritorno)
Il viaggio – vita non è partenza e neppure arrivo (“[…] Sapevo che non si trattava / di partenza, e nemmeno / d’arrivo; […]”, Palo): è un’immobile sostare nel nulla, dove luoghi, persone, azioni, ricordi e Dio sono solo incerte illusioni.
L’unica certezza è l’irrealtà, la non esistenza di luoghi e persone:
Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.
(Esperienza)
“Avanti! Ancora avanti!”
urlai.
Il vetturale
si voltò.
“Signore,”
mi fece. “più avanti
non ci sono che i campi.”
(I campi)
Non c’è posto neppure per la speranza e le domande hanno già in sé una dolorosa risposta:
Tonica, terza, quinta,
settima diminuita.
Rimane così irrisolto
l’accordo della mia vita?
(Cadenza)
Uno speciale grazie alla fotonarratrice Patrizia Traverso per le foto tratte dal libro Genova ch’è tutto dire – Immagini per Litania di Giorgio Caproni – di Patrizia Traverso e Luigi Surdich, il Canneto Editore, 2011
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