Direttore Generale di Amnesty International Italia, deceduto a Roma il 21 ottobre.

Direttore Generale di Amnesty International Italia, deceduto a Roma il 21 ottobre.

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In ricordo di Gianni Rufini

Nell’ottobre del 2006, io e Carlo Troiano, oggi docente di filosofia al Liceo delle Scienze Umane Sandro Pertini di Genova, invitammo Gianni Rufini al Festival della rivista Il Cormorano. L’incontro con lui fu molto importante per la nostra rivista, sia da un punto di vista umano che intellettuale. Per questo vogliamo ricordarlo insieme a Liguria Today pubblicando il testo di quell’incontro.

Strategie di pace e mercati di guerra 

di Gianni Rufini

Per la natura del mio lavoro, sono stato testimone di guerra. Faccio parte infatti di quell’ampia comunità di persone che tentano di ammortizzare gli effetti della guerra e di salvare vite umane, dove salvare una vita non significa solamente assicurarne la continuità biologica ma anche la dignità. Facendo parte di questa comunità mi sono trovato a confronto con le vittime della guerra e con quelli che la guerra la combattevano. Ho conosciuto mercanti d’armi, uomini dei servizi segreti, studiosi della guerra e coloro che la guerra la decidono. In particolar modo ho vissuto l’esperienza del Kossovo (1997–2001), svolgendo l’incarico di rappresentare centinaia di organizzazioni umanitarie nel difficilissimo dialogo con le parti politiche. Frequentare la guerra è un’esperienza estremamente dura. Una delle cose che accadono tra coloro che condividono il mio mestiere è quella che viene chiamata Burn-out, “bruciarsi”: praticare troppo a lungo la sofferenza, la paura, la violenza incide segni profondissimi che richiedono una vera e propria terapia per essere superati. Due sono le possibilità di difesa contro la violenza dei conflitti: ottundere ogni sensibilità e prendere l’abitudine a convivere con il dolore; tentare comunque un equilibrio in cui non si perda la sensibilità che si cerca in qualche modo di corazzare.

In tutto questo mio frequentare l’orrore della guerra e soprattutto studiandola a posteriori, ho ovviamente formulato delle riflessioni. Le conseguenze provocate sulla persona sono qualcosa di assolutamente agghiacciante. In guerra accadono cose inimmaginabili, che neanche il cinema ha saputo riprodurre con la sua fantasia, a livello di violenza, di crudeltà, di devastazione e destrutturazione della persona umana. L’esperienza comune a tutti di perdere una persona cara, durante un conflitto bellico è un fatto che si moltiplica, che si estende a tutta la comunità. Le vittime della guerra noi siamo abituati a considerarle come un numero: mille morti, centomila rifugiati, diecimila feriti, e questo elemento statistico riduce il senso d’impatto di cosa significhi nella realtà quel dato. Quando invece questo dato lo si vive sulla propria pelle e si vedono morire nei modi più impensabili parenti e amici, si viene privati della propria casa, insomma, della quotidianità, si comprende davvero la dimensione paradossale della guerra: si viene catapultati senza una ragione da una vita che possiamo considerare “normale” a una realtà di completo sfacelo di tutte le strutture dei rapporti umani. Ricordo quel che mi disse un rifugiato kosovaro pochi anni fa nel pieno del conflitto: “Pensa che strano, un mese fa i miei problemi erano pagare la rata della macchina, mio figlio che andava male a scuola, mio padre che stava male e dovevano ricoverarlo in ospedale, eccetera. Adesso ho visto mia moglie trucidata, mio figlio ammazzato, i miei amici sono scomparsi, non so che cosa ne sia della mia casa, non so che cosa ne sia del resto della mia famiglia; per me si è dissolto tutto, mi ritrovo in un film terribile in cui non avrei mai immaginato di trovarmi”. 

Le guerre che ho conosciuto e che ho potuto analizzare erano evitabili. Nessuna era scolpita nel granito come un destino, per ognuna si sarebbero potute trovare soluzioni alternative alla violenza. In questo senso non è vero che la guerra è la “continuazione della politica con altri mezzi”. La guerra è il segno del fallimento della politica e ogni conflitto è uno schiaffo in faccia alla classe dirigente che non ha saputo prendere le misure necessarie per evitarla, nonostante i numerosi ed efficaci strumenti politici, diplomatici, economici, militari che si hanno oggi a disposizione. La guerra nasce da ragioni a essa contemporanee, non da ragioni del passato, radicate storicamente nelle culture dei popoli. Sicuramente ci sono componenti culturali che influenzano le forme che la guerra prende, ma i conflitti nascono sui problemi di oggi, soprattutto dalla disuguaglianza. Con rarissime eccezioni i conflitti moderni sono figli di un differenziale di sviluppo tra due comunità umane, tra chi possiede le risorse, il potere economico e politico, il riconoscimento della propria identità e chi  no. In particolar modo le guerre degli anni Novanta sono guerre interne e civili in cui si confrontano gruppi privilegiati con gruppi emarginati, e da questo confronto non si è saputi uscire che con la violenza. Questo mi fa temere che se non saremo capaci, in tempi veramente rapidi e con un investimento di denaro e di volontà che in questo momento forse i nostri politici non riescono nemmeno a immaginare, ad affrontare il problema di quel 20% della popolazione mondiale che ha il 90% della ricchezza e di quel 10% di ricchezza che rimane per i 4/5 dell’umanità, anche questo confronto tra privilegio ed emarginazione si concluderà con  un confronto violento. E il terrorismo è già un primo segnale di come questo scontro sia incominciato. 

Un’altra cosa su cui è bene riflettere è il “nostro lato” della guerra, sul quale come cittadini europei attivi possiamo intervenire. Perché l’Italia, che ha scritto nella sua Costituzione il ripudio della guerra, si è trovata negli ultimi anni in guerra in Kossovo, in Afghanistan, in Iraq? Perchè negli anni Novanta tutti i governanti dei principali paesi del mondo, cioè dei paesi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, hanno deciso di fare la guerra, ora in un contesto, ora nell’altro? Con molte di queste persone ho avuto l’opportunità di incontrarmi e di parlare in veste di rappresentante di organizzazioni umanitarie. Io ho l’impressione che la guerra sia servita alla classe politica emersa dalla fine della guerra fredda come mezzo per definire la propria identità, per affermarsi come leaders e provare per un attimo l’ebbrezza del potere e del comando scevro dalle limitazioni proprie dei sistemi democratici moderni che la guerra dà. In questo fatto c’è un bisogno di definirsi umano e psicologico: la guerra come massima affermazione di virilità. Altrimenti non è spiegabile perché guide politiche spesso provenienti dall’area di centro-sinistra, quindi ragionevolmente meno portate a questo tipo di attività, abbiano deciso in tante occasioni di intraprendere guerre e quindi decretare il massacro di migliaia di persone e di disperdere una quantità di risorse enorme quando non ce n’era alcuna necessità tecnica, quando il problema sarebbe potuto essere risolto in altro modo.

Che cosa significa oggi, per noi cittadini che non ne subiamo le conseguenze, l’esistenza della guerra?  La spesa per gli aiuti internazionali nel mondo, siano essi per combattere le malattie epidemiche o a favore dello sviluppo e la crescita della parte più povera del mondo, cioè tutto ciò che si fa per eliminare le cause della guerra e promuovere l’esistenza di un mondo pacifico, assorbe ogni anno qualcosa come 55 miliardi di dollari e l’assistenza umanitaria alle vittime altri 6 miliardi di dollari, mentre nel 2004 le spese militari hanno raggiunto la spesa di 1000 miliardi di dollari, nonostante sia finita la guerra fredda e lo sfacelo dell’Unione Sovietica. Quindi il problema non è solamente della distorsione nel modo di guardare al mondo e ai suoi problemi da parte di chi ha in mano il potere decisionale, ma anche di un’enorme quantità di risorse che sono sottratte alla nostra qualità della vita, al benessere delle popolazioni nel nord e nel sud del mondo, nei paesi ricchi come nei paesi poveri, perché quei soldi vengono ricavati dalle tasche di noi cittadini. Mi auguro che in un futuro prossimo si possa trovare un modo migliore per impiegare questo denaro.

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