Non risultando sufficienti quasi 50 modifiche normative nei 30 anni di vita della riforma della governance portuale (legge 84 del 1994) e dopo le articolate riflessioni sulla portualità durante la crisi sanitaria globale del 2020 e quelle altrettanto qualificate sugli effetti negli scenari marittimi globali e locali delle guerre nel Mar Rosso ed ai confini europei, si ritorna a discutere di assetti portuali e, cioè, di condizioni ordinamentali della maggiore portualità italiana.
Da dove partire per individuare un modello di portualità italiana che abbia vita economica e sociale almeno di medio periodo?
Non intendo dare alcun consiglio a chi, con l’autorevolezza imposta dalla posizione ricoperta, saprà proporre al cluster marittimo portuale la soluzione migliore nella situazione data, tuttavia la lettura di alcuni pregevoli lavori scientifici e la discussione con alcuni qualificati esponenti della cultura portuale mi stimolano alcune riflessioni che volentieri condivido.
La riforma della governance è tema istituzionale-organizzativo da affrontare solo dopo aver definito quello funzionale. Al quesito “come” organizzare porti e portualità per meglio implementare le politiche pubbliche di regolazione, di definizione/finanziamento/realizzazione delle infrastrutture portuali e di promozione delle attività portuali si può utilmente rispondere solo dopo esserci chiariti sul “cosa” vorremmo che i porti facessero.
Due punti essenziali credo debbano essere esaminati:
- Garantire ai traffici che derivano o interessano l’industria manifatturiera nazionale un inserimento efficiente in itinerari di costo minimo (cioè tra il luogo di produzione ed i mercati di import e di export). In altri termini se la quota di import-export dell’economia italiana è maggiore a livello extra europeo e minore a livello intra europeo e se nel medio periodo (da 5 a 15 anni) si prevede lo spostamento del baricentro dell’economia verso l’Asia ed anche verso l’Africa, e se si rafforzerà la convenienza al trasferimento ro-ro a medio raggio verso i mercati mediterranei, allora, coniugando la mappa dei mercati di destinazione con quella dei principali luoghi di produzione manifatturiera, emerge la convenienza a servire i mercati di destinazione dell’export dai porti dell’alto Tirreno e dell’alto Adriatico.
- Quali porti quindi possono più utilmente essere posti in grado di connettere i luoghi economici della produzione con quelli extra europei di destinazione?
Inoltre vale la pena di soffermarsi su quali debbano essere le condizioni affinché la portualità italiana si affermi nella competizione dei traffici di origine e destinazione europea, al riguardo mi limito ad evidenziare:
- Le condizioni infrastrutturali, che portano a ritenere le portualità di Genova e di Trieste come le più idonee ad intercettare le rotte oceaniche delle catene globali di fornitura ma non da sole, bensì guidando due grandi sistemi portuali: uno, alto tirrenico da Savona a Livorno – radice marittima del corridoio ten-t Reno-Alpi e quello Scandinavo-Mediterraneo, ed altro, alto adriatico da Ravenna a Trieste con auspicabile estensione economica e funzionale a Koper e Rijeka – radice marittima del corridoio ten-t adriatico-Baltico;
- Le condizioni ordinamentali, che debbono vedere una riforma che individui due sole Autorità di sistema portuale e logistico per i porti delle due grandi aree economiche nazionali, riforma che riduca anche le restanti Autorità di sistema portuale in ragione degli oggettivi interessi economici dei mercati serviti.
In estrema sintesi la competizione (da sempre affermata ma mai affrontata con adeguate risorse non solo finanziarie) con la portualità dei mari del Nord Europa si fonda su molteplici profili, qui ne considero tre essenziali:
- Fondali adeguati per accogliere le più grandi portacontainer (economie di scala);
- Banchine e spazi a terra capaci di garantire l’imbarco e lo sbarco da navi con trasporto superiore ai 18000 teu, con ritmi produttivi tali di minimizzare i tempi di sosta nel porto (tecnologia, professionalità, riduzione delle burocrazie, …)
- Sistema logistico-trasportistico retroportuale ed intermodale capace di assicurare rapidamente il necessario deconsolidamento/consolidamento dei carichi e rapido inoltro verso i punti di origine/destinazione.
Se sono le economie di scale quelle che consentono la riduzione dei costi unitari del trasporto, economie generate dalla concomitante presenza delle sopra indicate condizioni e da altre comunque riconducibili agli interessi economici e finanziari dei grandi player internazionali, allora solo un vero Sistema economico portuale e logistico dotato di adeguata capacità decisionale autonoma (unico soggetto di controllo il Ministero e non già altre Autorità regolatrici la cui azione risulterebbe nella migliore delle ipotesi di rallentamento produttivo) può essere in grado di avviare una concorrenza che sarebbe di beneficio per l’intera economia europea (con positiva declinazione di interventi di tutela ambientale).
Mi rimane, non affrontato in questa sede ma neppure negli altri studi che ho potuto consultare un argomento: il lavoro portuale.
Come si qualifica il lavoro portuale, quali le sue prospettive, mantiene ancora utilità, come strutturarlo e difenderlo?
L’argomento è talmente importante che meriterebbe una trattazione specifica e molto approfondita sia per il rilievo che ha avuto ed ha nella gestione economica dei porti, sia perché la presenza qualificata di lavoratori portuali adeguatamente formati rappresenta al pari della tutela dell’ambiente uno degli elementi che consentono il miglior posizionamento di un sistema portuale nel mercato internazionale (si sceglie un porto anche per i suoi sistemi di sicurezza, per la capacità dei suoi lavoratori, per la pace sociale che lo caratterizza).
Seguendo l’impostazione qui tracciata si può ritenere utile affidare all’Autorità di Sistema Logistico-Portuale il compito di promuovere, d’intesa con i Ministeri competenti, la creazione di un organismo composto da imprenditori e sindacati che individui e gestisca i lavoratori del pool portuale e del pool logistico (modello non dissimile da quello adottato nel porto di Anversa).
Occorre dare risposta concreta (nella prospettiva di riforma) senza bisogno di rilevanti interventi normativi, alle esigenze dei vettori marittimi che devono trovare nella professionalità dei lavoratori portuali la soluzione alla esigenza di produttività in un quadro di sostenibilità economica, situazione peraltro evidente laddove si operi sulle grandi navi portacontainer.
Nella prospettiva che si è indicata, è interessante notare come tutti i principali porti del Nord-Europa (Rotterdam, Anversa, Amburgo e Bremerhaven) abbiano adottato un assetto istituzionale che, pur con alcune varianti anche di non poco conto, appare comunque caratterizzato dalla simultanea presenza dei seguenti elementi:
Affidamento della gestione dell’insieme delle aree e delle banchine portuali ad una società di capitali;
Composizione azionaria di tale società che vede una partecipazione pubblica totalitaria o comunque prevalente, con una presenza importante delle municipalità e delle entità (variamente denominate) rappresentative delle comunità “regionali”, nonché, ma non sempre, dello stato nazionale (in Italia ritengo indispensabile la presenza della Stato attraverso i suoi Ministeri);
Possibilità per tale società di assumere partecipazioni anche in società operative, esercenti attività sia nel settore portuale (in taluni casi anche con riferimento ai servizi portuali) che al di fuori del porto (in taluni casi anche in settori diversi dal trasporto e dalla logistica);
Utilizzazione delle forme del diritto privato (e in primo luogo di quella del contratto di locazione) ai fini della conclusione dei rapporti con le società “terze” per la messa a disposizione delle aree e banchine portuali a favore degli operatori marittimi e della logistica che esercitano le operazioni portuali nelle aree e nelle banchine portuali (profilo assai delicato in quanto si passerebbe dal regime demaniale a quello patrimoniale indisponibile con necessarie modifiche sia al codice della navigazione che a quello civile).
Occorre al riguardo considerare che per orientamenti giurisprudenziali europei e per la legge nazionale le attuali Autorità di sistema portuale sono enti economici (quantomeno per la parte relativa all’entrata da canoni demaniali).
Tutto il resto viene dopo.