Narcisismo lavorativo

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Individualismo e ambiguità della contemporaneità

Sharing economy, capitalismo cognitivo, gig economy, capitalismo delle piattaforme. Dall’inizio del nuovo millennio la proliferazione di nuovi termini ci segnala un’accelerazione nella frammentazione di ciò che chiamiamo “lavoro”. Un processo già in atto da tempo, nell’ambito del lavoro manuale – all’ingrosso da quando le grandi imprese cominciarono a “dare il lavoro fuori”, a microimprese.

Il lavoro intellettuale

La vera novità, oggi, la troviamo invece nel “lavoro intellettuale”, professionale, negli uffici. Ed è la risultante di fenomeni diversi, ma che tirano nella stessa direzione. Proviamo a enuclearne alcuni. Il più ovvio è la digitalizzazione. Molte operazioni che ieri si facevano di fronte al cliente, in virtù di conoscenza ed esperienza, oggi vengono “banalizzate”, si riducono quasi solo all’inserimento di dati in una “maschera” e l’importante diventa la rapidità. Molte lavorazioni lavorative nelle banche oggi a ciò si sono ridotte.

Narcisismo, lavoro autonomo e platform capitalism

Nelle giovani generazioni – altro tema su cui riflettere – una funzione importante la gioca il narcisismo. La percezione di Sé avviene attraverso i selfie, l’immagine di sé stessi si fa esasperatamente egocentrica. Se fra i miei coetanei, cresciuti fra le contestazioni studentesche, la vita veniva vissuta, dall’adolescenza in poi, come un’avventura collettiva, a partire dagli anni della “Milano da bere” si è affermato un sistema di valori basato sull’individualismo. Sino all’estremo della “generazione App”, che fra pochi anni entrerà anagraficamente nel mondo del lavoro con tutte le sue peculiarità.

Ma già oggi fra i trentenni è affermata la ricerca di un lavoro che “mi permetta di avere tempo libero per me stesso”. Negli Stati Uniti un lavoratore su quattro è freelance. Naturalmente questa tipologia di lavoratore, nelle fasce basse, non sceglie questa soluzione ma ci è costretta dalla necessità (a meno che non si tratti si studenti-lavoratori). Ma appena si sale la scala sociale il discorso si inverte: si sceglie il “lavoro autonomo” perché si immagina che sia più gratificante, più appagante e più remunerativo. Se attraversiamo l’oceano e arriviamo nella nostra Europa il discorso cambia, ma non si ribalta. L’Unione Europea incoraggia la formazione di start-up e i giovani aderiscono a queste prospettive non solo per la penuria di posti di lavoro come dipendenti (che comunque rimane drammaticamente alta), ma perché maggiormente confacenti alle aspettative di realizzazione di sé.

La paura e l’attrazione del Cambiamento

La contemporaneità, per sua natura, traccia la strada cammin facendo e spesso arriva lontano da dove immaginava fosse il suo traguardo. Si pensi alla “visione” dei primi “abitatori” della Rete – una tecnoutopia in cui la ricchezza prodotta avrebbe avuto una diffusione virale grazie ad esperienze autogestite, mutualistiche, di condivisione – che invece ha dato vita al platform capitalism, ossia i luoghi di massima concentrazione della ricchezza in mano di pochissimi (Amazon, Google, Facebook, Instagram, Twitter, Netflix). E dove anche la sharing economy mette in mostra la sua potenziale ambiguità, partorendo aziende come Uber, Airbnb, ecc.
Alla fine, ma forse sarebbe più giusto dire “a mo’ di premessa”, è bene ricordarsi sempre che ogni novità che comporti cambiamenti radicali all’inizio sempre ci seduce o ci spaventa, dal punto di vista cognitivo. Lo sappiamo, e quindi evitiamo di farci stritolare in che dilemma che ben sintetizzò Umberto Eco nella formula Apocalittici e integrati.

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Info Andrea Vannoni

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Lettore seriale, laurea in filosofia, motociclista e fotografo amatoriale

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