Livorno è la città emblema del più doloroso dei distacchi, quello dalla madre, e della più dolorosa, pesante e totale solitudine del poeta sopraggiunta dopo la scomparsa di Annina.
Una solitudine che accompagnerà Giorgio per il resto dei suoi giorni e che andrà ad assommarsi a quell’estrema solitudine interiore che costituirà il “punto d’arrivo” – insieme al Nulla – del suo “viaggio”.
“Livorno, la città dell’infanzia sulla quale è proiettato Il seme del piangere, resta la patria ricca come un ricordo dove s’intrecciano fantasie annebbiate e contorni precisi di presenze attive lontane nel gorgo della memoria non pacificata: piazze, vie, abitudini.
E su tutto, il ricordo delle prime e dure violenze fasciste che cominciavano a funestare coscienze e persone. Sullo sfondo di queste tristi memorie, la rievocazione caproniana, nella clausola finale, s’appunta sul “definitivo trasloco a Genova”, la città che sarà, per circostanze esterne e soprattutto interne, la sua “vera città”. Giorgio Caproni a colloquio con Cavalleri, “Cultura e libri”, III, 16-17 settembre-dicembre 1986
“Genova di tutta la vita.”
Anche il Premier Mario Draghi nel corso della sua visita istituzionale di mercoledì 9 febbraio ha citato Giorgio Caproni: “Genova sempre nuova, vita che si ritrova.”
Litania è il più bello dei tributi alla nostra città, una poesia senza tempo che racconta le mille sfaccettature di Genova. E Giorgio Caproni parla anche dei Genovesi e delle loro doti, a cominciare dallo stoicismo che permette loro di andare avanti pur dopo tante difficoltà.
“La città più “mia”, forse, è Genova. Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo.
Questo e soltanto questo, forse, è il motivo del mio amore per Genova, assolutamente indipendente dai pregi in sé della città. Ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi.”
Livorno per me è l’infanzia: è Annina, è la madre. Genova, invece, è mèzigue. F. Camon, Il mestiere di poeta, pp.105-106
La prima immagine di Genova in versi appare in Finzioni nella poesia A mio padre (il primo titolo era Sottoripa), caratterizzata, come di consueto nelle prime raccolte caproniane, da forti impressioni sensoriali (“Non più il catrame odora / di remoti velieri […]”, “[…] un gorgo / d’altri e più acri aromi […]”, “[…] un tanfo di bolliture / rancide, d’olii di semi […]”, “[…] carnali risa di donne […]”).
Nelle Stanze della funicolare Genova verrà attraversata con la funicolare o “arca”: ogni stanza è una tappa del viaggio scandita dai ripetuti alt finali; vengono immaginariamente visitati vari quartieri genovesi (“[…] Oregina / grigia di casamenti […]”, “[…] Zerbino / alto sopra le carceri […]”) sino alla tappa finale, un misero bar, con una “scialba” ragazza, la “mitica” Proserpìna.
“Il viaggio-volo della funicolare attraverso la già fantastica e metaforica accelerazione dei momenti del giorno e delle stagioni è anche viaggio dell’uomo attraverso le età della vita e ancora, parallelamente, viaggio del personaggio-poeta attraverso le tappe della sua vita, scandite dalle penose o atroci emergenze della storia. Il tutto avvolto in un duro, impossibile presente, e destinato a sprofondare fumigando nel luogo donde tutto è partito o scaturito, in quella nebbiosa latteria del “Prologo” che rappresenta, nello stesso tempo, una regressione al grado zero dell’infanzia e una discesa (da vivo? da morto? da sopravvissuto?) nel regno dei morti…”
È un viaggio dalla notte alla notte, caratterizzato dalla ossessiva presenza di un paesaggio di nebbia, la nebbia simbolo dell’indeterminato e che tutto avvolge e confonde: “[…] Perché è nebbia, e la nebbia è nebbia, e il latte / nei bicchieri è ancor nebbia, e nebbia ha / nella cornea la donna […]”, “[…] E Proserpìna […] mentre sciacqua / i nebbiosi bicchieri, la mattina / è lei che apre alla nebbia che acqua / (solo acqua di nebbia) ha nella nebbia […]”, “[…] La copre la nebbia / vuota dell’alba […]”, “[…] e la funicolare […] scolora / nella nebbia di latte […]”, Versi.
Paesaggio caratterizzato, inoltre, da una gamma cromatica volutamente ridotta. Prevalgono, su tutto, oscurità o attenuazione dei rumori: “quasi il movimento dell’arca dovesse esser sentito soprattutto come un movimento solenne e luttuoso, seppure attraversato da lampi e strappi e dissesti di gioia, verso la biancheggiante tomba della prima strofa o il nebbioso Erebo dell’ultima.” G. Raboni, Schede per la funicolare, pp.77-78
Caproni dedica numerosi versi a Genova:
“La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale / e, su dal porto, risucchi di vita […]”, Sirena; “[…] m’era accaduto che Genova / (da me lasciata), morta / io già piangessi […]”, “[…] Genova di tutta la vita […]”, Epilogo; “[…] Genova mia città fina: / ardesia e ghiaia marina.[…]”, A Tullio (In Appendice).
In conclusione la poesia più conosciuta di Caproni, L’ascensore, (“[…] Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto, nelle ore / notturne, rubando un poco / di tempo al mio riposo.[…]”) e Litania che presenta una Genova ritratta con sostantivi ed aggettivi dei più svariati.
Foto di Patrizia Traverso
Genova caratterizzata da un’espansione tutta verticale, da una continua tensione verso l’alto, Genova:
Con le sue salite, le sue rampe, le sue scalinate, i suoi ascensori pubblici, le sue funicolari e le sue strade disposte una sull’altra, Genova è infatti una città tutta verticale. Verticale e quindi, almeno per me, lirica, se non addirittura onirica.
Una città che direi, urbanisticamente, tra le più irrazionali, se non sapessi come invece, tale apparente irrazionalità, altro non sia che il frutto d’un ben ponderato calcolo: quello di trarre il maggior profitto possibile, e nel modo migliore, da una tirannica configurazione geografica, che sempre ha imposto ai genovesi d’espandersi soltanto in altezza. G. Caproni, Genova di tutta la vita, San Marco dei Giustiniani, 1983, pp.10-11
Genova “città dell’anima”: “[…] Perché Genova l’ho tutta dentro. Anzi. Genova sono io. Sono io che sono “fatto” di Genova.”
Genova, la “città umana, aperta” che “non respinge nessuno”, ha dunque contato moltissimo nella vita e nella poesia di Caproni:
Non riesco a trovare nessuna ragione plausibile al mio attaccamento a Genova. Parlare di “amore”, sarebbe certamente fuori luogo, è qualcosa di più, comunque di ben diverso.
Senza voler dare spiegazioni positivistiche, penso che Genova ormai faccia parte di me stesso, della mia persona, formatasi appunto a Genova e, direi, di Genova: Genova mi appartiene come mi appartiene un braccio, il naso, un occhio. O viceversa. G. Caproni, Le mie città più amate, cit.
Le ragioni più sottili di questo profondo e stretto legame vanno individuate in alcune “doti” dei Genovesi, ai quali Caproni riconosce il merito di una visione stoica della vita, nonché dell’amore per il concreto, per la laboriosità e parcità:
[…] Si tratta forse di stoicismo, di saper accettare la vita e di saperla vivere degnamente al di fuori o al di sopra d’ogni illusione. I genovesi hanno sempre avuto vivo il senso del concreto. […] Conoscono le tempeste, e sanno che il miglior modo per superarle non è quello di cullarsi in chimere, ma di accettarle virilmente, “concretamente”, appunto. […]
Non sono dunque nemmeno ragioni puramente estetiche, quelle che mi legano a Genova. Tant’è vero che mi piace immensamente perdermi proprio nelle sue più buie zone intestinali, nei caruggi dove si compie la digestione delle mercanzie arrivate in porto per tramutarle in lucro, in oro.
Non per ingordigia o avarizia, ma per amore, appunto, del concreto, per rendere più solida – e quindi più sicura l’esistenza, la vita di tutti. […] Loro che vivono sul liquido (il mare), e che hanno così poca terra su cui calcare il piede, vogliono che questa poca terra sia bene ferma, e si guardano dallo sperpero come i marinai delle sirene (e la Liguria è piena di sirene, compresa la sua estatica luminosità mediterranea, che così facilmente potrebbe trascinare alla contemplazione e a un orientale desiderio di svanire nel nulla). G. Caproni, Le mie città più amate, cit.
E come fa notare Antonio Barbuto: “Questa concezione, tutta genovese, della vita, si ripercuote interamente in Caproni, connotando esplicitamente la sua diversità dai moduli consueti del mestiere di poeta.
I versi – dice Caproni – non sono la cosa più importante della mia vita, esercitando tutt’altro mestiere e vivendo in tutt’altro ambiente che quello letterario. L’amore per il concreto, il senso del provvisorio e del destinato a perire sono alla base della sua poesia che si sostanzia sempre della sua “vita concreta di uomo”. Sicché i versi sono una delle conseguenze di tale vita e non il fine ultimo.”
Uno speciale grazie alla fotonarratrice Patrizia Traverso per le foto tratte dal libro Genova ch’è tutto dire – Immagini per Litania di Giorgio Caproni – di Patrizia Traverso e Luigi Surdich, il Canneto Editore, 2011