Dall’amore al coltello morire a vent’anni
Non chiamatelo amore, mai: Ilaria Sula e Sara Campanile, dall’amore al coltello, morire a vent’anni uccise dagli ex fidanzati, stavolta tutti giovanissimi
Undici. Dal primo gennaio al 2 aprile 2025 siamo già a undici femminicidi. E le ultime due vittime, Ilaria Sula e Sara Campanile, avevano poco più di vent’anni. Studentesse, giovanissime, con una vita davanti e la leggerezza tipica di quell’età. E invece no. Accoltellate. Uccise. Due storie diverse, ma con il medesimo epilogo mortale. L’amore che si trasforma in incubo. Le pagine di cronaca sono piene di racconti così, ma questa volta c’è qualcosa che gela davvero il sangue: l’età. Ventuno, ventidue, ventitré anni. Ragazzi poco più che adolescenti. Coppie apparentemente normali. Eppure, quando lei decide che basta, che quella relazione non le appartiene più, qualcosa si spezza. Si rompe del tutto, diventa irreparabile. E pericoloso.
È lì che entra in gioco il meccanismo malato. Quello che trasforma l’insicurezza in controllo, il disagio in violenza, la gelosia in ossessione. Quello che spinge un ragazzo a chiudere il corpo della sua ex in una valigia, come è accaduto a Ilaria Sula. E ci si ritrova, per l’ennesima volta, a pronunciare la stessa, stanca domanda: dove stiamo sbagliando?
Per anni abbiamo usato la parola gelosia come movente, quasi con indulgenza. Ma non è gelosia. È dipendenza, possesso, delirio. È l’idea, sbagliata e pericolosa, che l’altro ti appartenga. E il problema è che questo pensiero così aberrante sta abitando sempre prima le menti dei ragazzi. Quelli che dovrebbero ancora sognare l’amore con l’incoscienza di chi esplora, sperimenta, cambia. E invece no. Basta che una ragazza dica “non ti voglio più” e diventa colpevole. Colpevole da punire con la morte. Punite come Ilaria Sula e Sara Campanile.
Se amare a vent’anni è diventato un pericolo di morte
Noi, che siamo venuti prima, siamo cresciuti con l’idea che a vent’anni si possa amare e disamare in un attimo. Perchè le storie finiscono, fa male, ma si sopravvive. Erano gli anni delle prime volte, dei primi addii, del “tempo delle mele”, quando Vic mollava Mathieu per un ragazzo più grande e nessuno finiva in un sacco nero. Erano tempi imperfetti, certo, ma il rifiuto faceva parte della crescita. Ti insegnava qualcosa. Oggi sembra che tutto debba essere eterno, assoluto, insopportabile. Il “no” è un oltraggio da lavare col sangue. Dall’amore al coltello: morire a vent’anni. Si conferma che non basta commemorare. Bisogna gridarlo. Sempre. L’ho scritto e lo ripeto: non serve a nulla ricordarsi della violenza sulle donne solo il 25 novembre. Non servono post indignati, performance teatrali o cene istituzionali. Il giorno dopo tutto si spegne, si archivia, si dimentica.
Ci vuole una rivoluzione culturale
Bisogna parlarne sempre. Scriverne anche quando non fa notizia. E soprattutto, bisogna cominciare a cambiare qualcosa. Davvero. Non con gli slogan, né con le fiaccolate. Una rivoluzione culturale non si fa con un hashtag. E come ogni rivoluzione che si rispetti, deve partire dal basso. Dalle famiglie. Dalle scuole. Basta con la retorica della parità che ci raccontiamo due volte l’anno. La parità, quella vera, in Italia è ancora un miraggio. Fa bella figura, ma non cambia la sostanza. Le donne nei talk show, nei CDA, nei ministeri ci sono. Ma poi guardi i numeri e vedi che le differenze restano. Stesse competenze, metà delle opportunità. Stessi ruoli, stipendi più bassi. E lo stesso, identico, retaggio culturale che lascia intendere che una donna deve adattarsi, mediare, farsi piccola.
L’uomo può andarsene. La donna, invece, deve restare. Deve “farsi perdonare” se osa scegliere. Se osa lasciare. E se anche i ventenni ormai uccidono, perseguitano, controllano, allora il problema è sempre più nostro. È qui. È dentro le nostre case, nelle nostre scuole, nei nostri modelli educativi. È nel modo in cui raccontiamo l’amore, il rifiuto, la libertà.
Siamo sul precipizio. E continuiamo a chiudere gli occhi.
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