Le tre Comunità tabarchine riunite per la prima volta a Genova
È passato quasi mezzo millennio. Ma ogni anno i Tabarchini tornano a Pegli, oggi quartiere di Genova, per celebrare la partenza da lì dei loro avi nel 1541-42.
Fu un’impresa organizzata dai Lomellini e, in una prima fase, anche dai Grimaldi. Un viaggio temerario di trecento pescatori ponentini, seguiti poi dalle loro famiglie, sino all’altro capo del Mediterraneo.
Colonizzarono l’isoletta di Tabarka, antistante il litorale tunisino prossimo all’Algeria. La trasformarono nella più ricca stazione di pesca mediterranea del corallo (l’oro rosso) e in un fiorente porto franco, per due secoli unica enclave cristiana in area islamica magrebina.

Fortezza del casato genovese dei Lomellini sull’isola Tabarka
Una lunga storia avventurosa, che nel Settecento, a causa delle mutate condizioni ambientali e socio-politiche (esaurimento dei banchi coralliferi e fine della pace con il Bey di Tunisi) condurrà questo popolo, piccolo quanto tenace, a una diaspora nel Mediterraneo.
Nel 1741 le milizie del Bey di Tunisi invasero Tabarka e ne fecero schiavi gli abitanti. A seguito di questo primo periodo di schiavitù dei Tabarchini iniziò un processo di contatti diplomatici per la loro liberazione che durò quasi trent’anni. Vi contribuirono il Papa, Carlo Emanuele III, re di Sardegna, e Carlo III, re di Spagna.
Una parte dei Tabarchini riscattati già nel 1745 s’insediò all’estremo Sud della Sardegna, nell’arcipelago sulcitano, a Carloforte (cittadina nel frattempo fondata nel 1738 da un primo gruppo di esuli tabarchini, al seguito di Agostino Tagliafico, sull’isola di San Pietro, allora deserta, concessa loro da Carlo Emanuele III affinché la colonizzassero).

Un altro ramo nel 1769 approdò sulla minuscola isola di San Pablo, di fronte ad Alicante, dando vita a Nueva Tabarca. L’ultimo nucleo di schiavi tabarchini riscattati nel 1770 fondò Calasetta, sull’isola di Sant’Antioco, antistante l’isola di San Pietro.

I Tabarchini: fondatori di floridi centri marinari
Sino al 2023 sono stati i soli Carlofortini a compiere il pellegrinaggio annuale a Genova. Da ben 22 anni li guida Gianni Repetto (57 anni), da 26 anni inossidabile presidente della Pro Loco di Carloforte (un’istituzione storica, che quest’anno ha compiuto 70 anni di intensa attività).
In questo 2024 però è avvenuto un incontro speciale a Pegli: per la prima volta qui, dove tutto ha avuto inizio cinque secoli fa, si sono riuniti con i fratelli Zenéixi tutti e tre i rami tuttora vivi della Tabarchinità: i due delle principali isole sulcitane. E il terzo, proveniente dall’isoletta spagnola di Nueva Tabarca.
Il popolo tabarchino per quattro giornate, splendide non solo dal punto di vista meteorologico, dal 29 novembre al 2 dicembre, è convenuto a Genova con tre delegazioni, guidate dalle rispettive autorità: 28 persone da Carloforte, 21 da Calasetta e 26 da Nueva Tabarca: in totale 75 persone.
Nelle loro incredibili peripezie i Tabarchini, anche nella schiavitù, hanno sempre mantenuto viva memoria delle loro origini e delle loro tradizioni ligustiche. A iniziare dalla lingua tabarchiña, simile al zenéize, parlata dall’87% dei 5.880 abitanti di Carloforte, dal 68% dei 2.795 abitanti di Calasetta e, in specie – cosa che in Liguria avrebbe del miracoloso –, dai bambini: il 72% a Carloforte e il 62% a Calasetta. Altri 5.000 Tabarchini residenti in Sardegna a Carbonia, Iglesias, Cagliari e a Genova ne fanno uso in famiglia. All’originario ceppo ligure si congiunsero limitati innesti di provenienza sarda, ponzese, ischitana e di altre illustri aree marinare campane o siciliane. Tutti si integrarono sempre perfettamente negli usi tradizionali e linguistici tabarchini.
Custodiscono le vive tradizioni tabarchine due straordinarie istituzioni: Ràixe (Radici) – Spazi digitali per la cultura tabarchina, Archivio digitale e installazione museale per la cultura tabarchina di Calasetta e il Polo linguistico tabarchino di Carloforte.

Uno spirito sempre vivo
Purtroppo a Nueva Tabarca l’uso del tabarchino si spense agli inizi del Novecento a pro dello spagnolo.
Resta però ben vivo lo spirito di appartenenza alla Tabarchinità dei suoi 61 abitanti: nelle memorie familiari, in alcune parole. E nei cognomi, che sono ancora quelli liguri, a volte spagnolizzati: Luchoro (Luxoro), Chacopino (Giacoppino), Manzanaro (Mazzanaro), Salieto (Saglietto), Parodi, Russo.

Il tabarchino, a lungo studiato dal grande linguista genovese Fiorenzo Toso, resisté per secoli anche in Tunisia per il suo prestigio di lingua franca mercantile, persino dopo l’instaurazione del protettorato francese (1883). Ma il suo uso pare essersi estinto prima dell’indipendenza della Tunisia (1956) con la naturalizzazione dei parlanti, divenuti francofoni.
Dello straordinario spirito di fratellanza tra Madrepatria genovese e i Tabarchini e della loro lunga storia si è parlato nella conferenza, molto partecipata, tenutasi nel bel salone dell’Hotel Mediterranée di Pegli (già Villa Lomellini) nel primo pomeriggio del 29 novembre, in occasione dalla presentazione dell’avvincente romanzo su tali temi L’Epopea di un popolo di Mauro Avvenente (di madre tabarchina), Assessore alle Manutenzioni, Decoro urbano e Centri storici del Comune di Genova.

Marco Bucci e Gianni Repetto
A sottolineare la solennità dell’evento sono intervenute le massime autorità: Marco Bucci, neopresidente della Regione, Pietro Piciocchi, sindaco facente funzione di Genova e Guido Barbazza, presidente del Municipio VII Ponente.
Hanno preso la parola anche il presidente della Pro Loco pegliese Cesare Venturelli, il presidente della Pro Loco carlofortina Repetto e il sindaco di Carloforte Stefano Rombi (accompagnato dalla vice-sindaco Betty Di Bernardo e dal parroco Don Andrea Zucca), in rappresentanza della delegazione carlofortina.
Fra i Carolini erano presenti la poetessa Margherita Crasto e u Sciù Antonio Casanova, divenuto famoso a Genova per una recente partecipazione alla popolare trasmissione in zéneize Scignorîa! di TeleNord, condotta da Gilberto Volpara con la presenza fissa di Franco Bampi. Era con la moglie, a Scià Liliana Napoli.
Erano altresì presenti esponenti della Compagna di Zéneixi (il consultore Emilio Piccardo) e della Consulta Ligure (il presidente Giorgio Oddone).
Il gemellaggio Genova-Comunità Tabarchine
Si è poi tenuta una cerimonia di gemellaggio tra Genova e le Comunità tabarchine presso la piazzetta San Pietro, adiacente a via Carloforte, con apposizione di ceramiche decorative in memoria dell’Epopea Tabarchina.

Al ricevimento, aperto alla cittadinanza, tenutosi in serata al Palazzo Municipale di Pegli – allietato dalla Filarmonica Pegliese, dal Gruppo Storico Voltri e degli Armigeri di Pra’ – sono riuscite a intervenire anche le altre due delegazioni tabarchine (in ritardo per lo sciopero generale), rispettivamente guidate dal sindaco di Calasetta Antonello Puggioni (accompagnato dal vicesindaco Giuseppe Cincotti) e dal rappresentante della Comunità di Nueva Tabarca Antonio Ruso.
Dal 30 novembre le delegazioni tabarchine in trasferta con il loro pullman privato si sono mosse tra Genova e la Riviera di Levante per una serie di visite ufficiali e di diporto, ma anche motivate dalla loro profonda fede. Hanno trascorso buona parte del sabato a Chiavari. Nella Basilica Cattedrale di Nostra Signora dell’Orto si è tenuta per loro una partecipata funzione in memoria di Padre Giovanni Battista Rivarola, ultimo parroco di Tabarka.
La comitiva si è poi spostata a Recco, dove alla cena nel Ristorante Da o Vitöio è intervenuto il sindaco Carlo Gandolfo, con scambio di doni, nonché Giorgio Oddone, presidente della Consulta Ligure, il cantautore e rapper zenéize Mike FC e, in rappresentanza della Compagna, chi scrive.
L’evento clou della mattinata di domenica è stata la solenne messa in onore della Madonna dello Schiavo, officiata presso la Parrocchia di Santa Maria Immacolata di Pegli dal Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo Metropolita Emerito di Genova. Nella bella chiesa stracolma di fedeli, numerose le autorità presenti, a cominciare dal Governatore della Regione Liguria, Marco Bucci.
Il culto della Madonna dello Schiavo, profondamente sentito dai Tabarchini e, in specie, dai Carlofortini, origina da un doloroso periodo della loro storia: quello della seconda schiavitù.
Nel 1798 i pirati barbareschi giunsero sino all’isola di San Pietro, saccheggiarono Carloforte e trassero prigionieri oltre 900 suoi abitanti, che poi vendettero come schiavi in Tunisia o in Algeria.

A Tunisi e in altre città tunisine molti Carlofortini furono assoggettati a lavoro servile presso famiglie agiate, taluni con trattamento umano. Tra questi Nicola Moretto, un giovane che il 15 novembre 1800, durante un momento di libera uscita, su permesso del suo padrone, mentre passeggiava sulla spiaggia di Nabeul trovò un busto ligneo, nel quale altri avrebbero visto solo il resto di una polena. Non lui, che vi riconobbe un miracoloso simulacro della Madonna.
Lo consegnò subito al giovane prete Don Nicolò Segni, che aveva seguito la propria comunità in stato di schiavitù per assicurare ai suoi concittadini i minimi conforti religiosi.
U prevìn (il pretino), che custodì di nascosto quel sacro simulacro, apparteneva a un nobile casato genovese (originario di Segno, piccolo paese nei dintorni di Vado) trasferitosi a Tabarka e quindi a Carloforte. Da un ramo di quella stessa famiglia tabarchina, che si trasferirà poi da Carloforte a Sassari, proverrà l’esponente più famoso di quella stirpe: il Presidente della Repubblica italiana Antonio Segni (1962-1964), discendente diretto dal capostipite carolino Giobatta Segni, che fu il primo sindaco di Carloforte sin dalla sua fondazione (1738).
Quando, nel 1803, gli schiavi tabarchini furono liberati a seguito dell’ennesimo (e definitivo) riscatto da parte di Carlo Emanuele IV e furono riportati a Carloforte, iniziò qui il culto ufficiale della Madonna dello Schiavo, celebrato ogni anno il 15 novembre.
La straordinaria Epopea Tabarchina, che coinvolge quattro Paesi (Italia, Spagna, Tunisia e Algeria) e due Continenti è da anni candidata quale Patrimonio immateriale dell’Umanità (obiettivo per cui da anni si batte anche l’archeologa Monique Longerstay con l’associazione tunisina Le Pays vert).
Il 2025 dovrebbe essere l’anno di questo prestigioso riconoscimento da parte dell’UNESCO.
Marco Bonetti