Walser, cosa nascondi?
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«Dice che, in sostanza, egli deve a libri artisticamente mediocri ore non meno avvincenti che ai libri di primo piano. E per la gran massa dei lettori probabilmente avviene lo stesso. Essa rifugge d’istinto dal genio [..] il genio è costituzionalmente scomodo, mentre il popolo ama chi gli fa buon viso»
tratto da Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser, Adelphi 1981.
Quando il filologo Jochen Greven mette le mani su quelli che chiamerà Microgrammi, inizialmente pensa di essere di fronte ad un accumulo di parole deliranti, senza capo né coda, codici cifrati impossibili da interpretare.
Questo particolare aspetto della scoperta postuma quanto inaspettata della scrittura minuscola di Robert Walser (1878/1956) richiama alla memoria la storia di quella stanza, al secondo piano di una pensione di un quartiere povero di Webster Street Chicago, in cui fino al 1972 visse Henry Darger – artista outsider tra i più celebrati al mondo – dove il proprietario (rientrato in possesso della casa) trova opere d’arte di una luminosità quasi sovrannaturale, trecento dipinti e migliaia di pagine, seppellite da un cumulo di oggetti fatiscenti ammassati ininterrotamente per 40 anni; affascinante la narrazione di questa storia riportata da Olivia Laing in Città Sola, il Saggiatore, 2018, traduzione di Francesca Mastruzzo.
Torniamo ai Microgrammi: fogli di recupero ricavati da buste, vecchie cartoline e ricevute di ristoranti che contengono, tra le altre prose, uno dei romanzi più straordinari e complessi del primo Novecento: Il Brigante.Un capolavoro celato in e tra 526 pezzettini di carta.
Un libro scritto a matita con una calligrafia che a stento raggiunge i 2mm, concepito (volontariamente nascosto) alla fine degli anni Venti e infine compreso e risolto dopo la morte del suo autore; un testo che raggiunge il pubblico solo a partire dalla metà degli anni Sessanta – dopo che Wernern Morlane e Bernhard Echte ne svelano stile e contenuto.
Il brigante, che è sia il protagonista del romanzo che l’alter ego dello scrittore, viene dipinto disdegnato deriso mentre si muove in un mondo che non lo accetta, ma infine acquista voce e dignità autoriale. Durante il colloquio con donna Selma ci offre una delle chiavi di lettura dell’opera: il dualismo (nella dinamica sociale) tra chi si conforma, si difende, esprime la sanità mentale che si orienta attraverso il buon senso comune – Selma pretende, sa, si stranisce, esige – e chi invece osserva il circostante con un disincanto che oscilla tra amabilità e inettitudine – il brigante vacilla, è lento, fuori luogo, privo di carattere, lacunoso.
I personaggi di Walser ereditano parte del destino del principe Lev Nikolaevič Myškin, figura letteraria maestosa e indimenticabilmente triste che suo malgrado attraversa le frequenze della santità, dell’inettitudine e della follia nel tempo di due storie d’amore non capite e mal vissute.
Chissà quale piega avrebbe preso la letteratura mitteleuropea – e non solo – se gli scrittori amanti dell’opera del poeta elvetico, come dichiarano di essere Franz Kafka o Robert Musil, avessero avuto tra le mani questo capolavoro fuori tempo, inaccessibile; quali vette letterarie ci ha precluso l’Umiltà? Walser quasi riuscì nel folle volo già intrapreso da Virgilio (e ripercorso poi dallo stesso Kafka): sacrificare la propria opera per non farla penetrare dai lettori o dissanguare dai critici.
Walser ambisce alla solitudine e alla damnatio memoriae, rifugge i paragoni ai grandi maestri; il vagabondare in solitudine lo mantiene sobrio, in uno stato di quiete interiore.
Così Walser, lo scrittore del monologo e della passeggiata solitaria, scrive delle profondità oscure e degli abissi in cui l’animo umano rischia di sprofondare, le evoca senza nominarle mai, aggirandole, nascondendo la loro imminenza per mezzo di una frase continua, una loquacità inarrestabile, una gioia ossequiosa che pretende di sfuggire all’agguato della follia: una prosa che, proprio per ciò che nasconde, risulta disturbante, respinge, ammutolisce.
Zhemao