Il caso Khelif è una questione politica e sbarca anche nella campagna americana

Il caso Khelif è una questione politica e sbarca anche nella campagna americana

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Che il caso di Imane Khelif fosse una questione politica, sportiva e non solo, era abbastanza chiaro fin da quando è scoppiato il polverone mediatico sull’atleta algerina e sulla taiwanese Lin Yu-Ting, squalificate ai mondiali del 2023 dall’IBA, la federazione internazionale della boxe amatoriale perché un “test” non meglio identificato condotto da un laboratorio indipendente avrebbe accertato che i loro cromosomi sessuali sono XY, quindi nella maggior parte dei casi riconducibili a un’identità maschile.

Nella notte perfino Donald Trump ha parlato di ingiustizia definendo Khelif “trans”, a dimostrazione di come il caso sia andato ben oltre il ring olimpico e stia diventando pane per i reazionari dell’occidente, per campagne sulla pelle di una sportiva che, intanto, ieri si è garantita l’accesso al podio a Parigi. La vittoria sull’ungherese Hamori nei quarti infatti assicura all’algerina almeno la medaglia meno pregiata, dovesse uscire sconfitta dalla semifinale, visto che nella boxe non si disputa la “finalina” per il 3° e il 4°, posto ma si assegna il bronzo a entrambe le atlete. A differenza di Angela Carini, Hamori ha deciso di salire sul ring, dopo un paio di giorni passati a tenere un comportamento poco sportivo sui social network – insulti alla sua avversaria per cui l’Algeria sta valutando una denuncia – e ha lottato per tutte e tre le riprese.

L’incontro si è concluso a punteggio pieno a favore di Khelif, che è scoppiata in lacrime dopo la proclamazione, rivendicandolo come una vittoria per tutte le donne. Il polverone su questa pugile sembra riportare lo sport a cent’anni fa. Si tenevano sempre a Parigi nel 2022 le prime Olimpiadi con la partecipazione delle donne, previo controllo di un medico che certificasse (ossia, guardasse loro in mezzo alle gambe) la loro femminilità.

Il caso Khelif: un polverone mediatico basato di fatto sul nulla e una questione politica

Reso pubblico il verbale che decretò più di un anno fa la squalifica per Khelif e Li, in realtà il documento non chiarifica granché la decisione dell’IBA. Di certo, esclude che le due atlete siano transgender, che a questo punto si conferma essere un’invenzione mediatica – voluta o dovuta a ignoranza, rimane da capirlo – ma non esplicita neanche i risultati che le avrebbero definite uomini.

Anzi, il documento cita un primo test effettuato nel 2022, in occasione del mondiale in Turchia, ma se così fosse non si capisce perché l’IBA ha permesso a Yu-Ting e Khelif di gareggiare ancora per un anno. Perché lasciarle salire sul ring senza fare niente per ulteriori dodici mesi, se la preoccupazione è la sicurezza delle loro avversarie? Inoltre, in nessun verbale della federazione si cita il nome dell’esame effettuato né si riportano gli esiti precisi, né le due pugili sono definite uomini o transessuali. Tant’è vero che a oggi Khelif risulta ancora iscritta regolarmente sul portale online del’IBA… ma se fosse un uomo, non la federazione non avrebbe dovuto cancellarla immediatamente? Anche volendo credere a un ritardo di gestione del sito, 14 mesi sono davvero tanto tempo per un aggiornamento informatico, specie su questioni così delicate.

La squalifica sarebbe stata dunque una decisione del presidente, il russo Kremlev, ratificata dall’IBA senza prove evidenti

La vicenda intorno a queste due pugili e la squalifica dubbia potrebbe essere stata la goccia per il CIO a non considerare più affidabile l’IBA per l’organizzazione del torneo olimpico, dopo anni di richiami e una precedente squalifica per mancata trasparenza. Nell’ultimo anno, inoltre, si è costituita una nuova organizzazione internazionale, la World Boxing Association, che sta crescendo sempre di più, richiamando le principali federazioni nazionali.

Tornando ai criteri di eleggibilità pre-2019, quando sono sorti i primi problemi tra CIO e IBA, la World Boxing ha testato le due pugili sui livelli di testosterone presente nel sangue e a settembre le ha ritenute idonee a prendere parte al torneo olimpico.

Nell’ottica della politica sportiva, il premio in denaro proposto da IBA per la pugile italiana Angela Carini e per la Federazione italiana – che guarda caso, dal 26 luglio 2024 risulta membro della World Boxing – potrebbe essere letto non come un supporto a un’atleta ingiustamente penalizzata, ma un tentativo disperato di trattenere il pugilato azzurro tra le proprie fila. L’annuncio dell’IBA di corrispondere 50mila dollari a Carini e altri 25mila al suo allenatore e 25mila alla federazione ha sollevato un ulteriore polverone mediatico, tanto che ieri sera la FPI ha chiarito che non intende accettare denaro dall’IBA per questa situazione.

La corsa a mettere etichette a un’atleta semplicemente perché è brava

Immaginate di essere all’apice della vostra carriera, a giocarvi un risultato inseguito per tutta la vita, e tutto il mondo è ansioso di guardare nelle vostre mutande. Al punto che vostro padre costretto ad andare in televisione a mostrare il vostro certificato di nascita per dimostrare la vostra identità di genere. Abbastanza umiliante, vero? Eppure è proprio quanto è successo in queste ore.

E questo vale per tutti, da chi ha definito Khelif un uomo semplicemente perché non corrispondente a un canone di bellezza estetica condiviso – ma a guardare le migliori pugili nel torneo, ben poche vi rientrerebbero, onestamente – a chi ha deciso che è una persona transessuale, a chi ricordando casi noti come quello di Caster Semenya ha deciso che è intersex.

Ci siamo reinventati tutti genetisti ed endocrinologi in questi giorni, dibattendo sui livelli ormonali, sui cromosomi e sugli stereotipi di genere

Molti hanno perfino scoperto che le donne producono naturalmente testosterone, che non è un’esclusiva maschile. Chi ha detto che lo sport non insegna nulla?

In realtà, a oggi tutto quello che si sa è che Khelif è una donna che potrebbe aver avuto in passato dei livelli di testosterone sopra i limiti consentiti, ma che negli ultimi 12 mesi ha passato i test ed è eleggibile al torneo olimpico. E che, in barba al parere dei tuttologi, porterà a casa una medaglia per il suo Paese, l’Algeria.

Un Paese dove, ricordiamo, l’omosessualità è punita con il carcere da due mesi a tre anni e dove i diritti LGBTQ+ non esistono, di fatto. Tanto che le persone transessuali di norma fuggono dall’Algeria e chiedono asilo, temendo per la propria vita. È abbastanza surreale credere che una nazione del genere, dove l’onore è culturalmente una priorità da difendere a tutti i costi, sarebbe disposta a mandare un atleta transgender o a mascherare un uomo da donna per una medaglia olimpica.

Forse, l’uso strumentale della vicenda di Imane Khelif dice più delle persone che ne hanno fatto un caso mediatico e politico

Sembra infatti che per racimolare qualche voto reazionario in più, tutte le fake news siano valide. Il comizio di Trump di ieri ha raggiunto vette particolarmente elevate nel parlare della sua avversaria, Kamala Harris, mettendo di nuovo in discussione la sua identità etnica – secondo il candidato repubblicano, la vicepresidente non si sarebbe mai definita afroamericana fino a che non ne ha visto un vantaggio politico – e poi chiamandola direttamente “stupida”.

Toni che sono sintomo di una campagna aggressiva, convulsa e basata ben poco sui piani concreti per fare “l’America grande di nuovo”. L’ossessione di Trump sull’identità delle donne – specie di quelle che non rientrano nella sua scala di gradimento – servirà ad arginare la crescita nei sondaggi di Harris? Novembre si fa sempre più vicino e ogni polemica, si sa, in campagna elettorale fa brodo. Senza guardare ai danni mediatici e diplomatici che potrebbero sorgere.

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Info Laura Casale

Laureata in Comunicazione professionale e multimediale all'Università di Pavia, Laura Casale (34 anni) scrive su giornali locali genovesi dal 2018. Lettrice accanita e appassionata di sport, ama scrivere del contesto ligure e genovese tenendo d'occhio lo scenario europeo e internazionale.

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