Tra tutte le vicende che stanno tenendo banco alle Olimpiadi in questi giorni e le novità forse più positive, c’è l’advocacy degli atleti che – forse riscoprendo lo spirito olimpico – contestano le narrazioni dello sport a cui siamo abituati, quelle in cui la vittoria è tutto e chi arriva secondo è solo il primo dei perdenti, figuriamoci chi non prende nemmeno medaglia.
Il racconto mediatico dello sport è spesso brutale quanto la competizione in sé, forse anche di più, e negli ultimi anni i social media hanno reso la questione ancora più impellente. Come osserva la multimedadagliata di ginnastica artistica Simone Biles nel documentario sulla sua riscoperta dopo Tokyo, uscito recentemente su Netflix (Simone Biles Rising: verso le Olimpiadi), è complesso affrontare la gara che può determinare la propria carriera – specie se non va come previsto. Dover subire allo stesso tempo centinaia, migliaia di commenti online sui propri profili da persone che giudicano sedute sul divano, spesso senza avere la minima idea di come lo sport funzioni.
Oggi vediamo anche atleti italiani che contestano intervistatori che si aspettano di vederli pronti a fustigarsi per un quarto posto, non capire la loro gioia malgrado la medaglia sfumata.
La vittoria a tutti i costi non è più così impellente?
È il caso di Benedetta Pilato, diciannovenne arrivata quarta nella sua gara per un centesimo di secondo, un tempo che è quasi impossibile anche solo da pensare e che, senza i cronometri sempre più precisi, sarebbe incalcolabile. Eppure, Benedetta è uscita dalla sua prova entusiasta, felice, e ha dichiarato di aver appena vissuto la giornata più bella della sua vita, mandando in tilt sia la giornalista a bordo piscina che una pluricampionessa di scherma come Elisa Di Francisca. Come osa questa ragazzina essere felice pur non avendo preso una medaglia, pur avendola mancata per un soffio?
Una reazione, quella delle giornaliste chiamate a commentare, che ha scatenato molte discussioni: è una questione generazionale, forse? Oppure, se ci fermiamo a pensare, è il simbolo di un cortocircuito narrativo sullo sport denunciato da anni, ma che fa fatica a cambiare?
Salvo l’appuntamento olimpico, gli atleti dei cosiddetti sport minori – in Italia, tutto tranne il calcio – trovano ben poco posto sulle pagine dei quotidiani o nelle programmazioni televisive. Molto spesso, gli spazi dedicati si concentrano però sulle sconfitte – che vanno appunto dal secondo posto a scendere – o sui mancati piazzamenti. Se per caso vince, l’atleta a quel punto sarà moralmente obbligato a continuare a classificarsi primo: in caso contrario, i media sezioneranno la sua vita privata, i suoi impegni mediatici e pubblicitari accusandolo di non essere serio. Se continua a vincere, si creerà comunque una comunità di hater online pronti sempre a sminuirlo e a criticarlo a ogni piccola sbavatura.
Sta succedendo a Jannik Sinner in queste settimane: il tennista altoatesino è il primo italiano nella storia a raggiungere la cima del ranking ATP con il sistema moderno. È un primato storico, eppure da quando lo ha raggiunto Sinner è stato messo in discussione per la sua relazione (con giornalisti che si chiedono se non faccia troppo sesso prime delle partite), per i piazzamenti ottenuti negli ultimi tornei e, non ultima, la decisione di non partecipare alle Olimpiadi per una tonsillite. Come osa, il nuovo idolo delle folle, decidere di anteporre la propria salute?
Eppure Sinner già da tempo contesta l’organizzazione di alcuni dei principali tornei ATP che obbligano gli atleti a ritmi assurdi, per inserire sempre più eventi e per cercare di monetizzare di più sui diritti televisivi. A volte, anche a scapito del benessere dei tennisti che rendono il torneo possibile.
E il problema si sta ripresentando per certi versi alle Olimpiadi in molte discipline, tra cui il tennis
Arcieri, tennisti giocatori di beach volley e altri sportivi si stanno trovando a competere sotto il sole a piombo delle 13.00 in giornate senza una nuvola e in campi senza un minimo di ombreggiatura, nemmeno sugli spalti, mentre Parigi affronta un’onda di calore importante. Ciò porta gli atleti ma anche il pubblico a sostenere condizioni ambientali estreme, per gli spettatori è quasi una beffa visto il costo assai salato dei biglietti… per poi sentirsi ricordare dagli speaker che si sono altre zone in ombra da cui seguire la partita dal megaschermo.
La polemica principale a Parigi riguarda poi la balneabilità della Senna: la Francia ha speso una somma ingente per bonificare il fiume in un progetto mastodontico, ma l’acqua risulta ancora al limite per quanto riguarda l’inquinamento e la presenza di batteri. Le prove di triathlon si sono svolte e a breve – salvo un peggioramento della qualità dell’acqua – toccherà ai nuotatori di fondo. Tuttavia, lamentano i triatleti, è stato pericoloso gareggiare in un tratto di fiume senza aver mai potuto saggiare le correnti: la prova si è rivelata molto dura, con diversi partecipanti che si sono sentiti male al termine della gara.
Ma gli atleti dovrebbero davvero scegliere tra lavoro e salute? La narrazione del campione che compie meraviglie malgrado i problemi fisici è molto radicata nella nostra cultura, eppure gli sportivi non sembrano più disposti ad accettarlo.
Probabilmente, il desiderio di rompere con la narrazione del sacrificio a tutti i costi ha avuto una spinta importante con la pandemia da Covid-19
Lo slittamento di un anno delle Olimpiadi 2020 e l’edizione del 2021 contingentata e senza pubblico hanno pesato sugli atleti. La stessa Simone Biles, che ha deciso di rinunciare nel 2021 a una parte delle prove olimpiche perché non si sentiva abbastanza lucida nel fare i propri esercizi – e una brutta caduta dagli attrezzi può causare paraplegia o anche la morte, ricordiamolo – è diventata un simbolo di quei Giochi, con il messaggio della salute mentale prima del bisogno di vittoria.
Un altro momento chiave delle Olimpiadi di Tokyo è stata la doppia medaglia d’oro nel salto in alto, quando Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Barshim hanno deciso – trovandosi alla pari – di condividere il primato, a coronare due carriere prestigiose ma anche costellate da gravi infortuni. Un gesto di amicizia e di rispetto molto apprezzato, ma anche contestato come “mancato spirito olimpico”, proprio da chi pone la competizione e la vittoria al di sopra di tutto.
Del resto, lo spirito olimpico non riguarda la vittoria, ma l’impegno a partecipare con il massimo rispetto dei Giochi e degli avversari.
Probabilmente, una responsabilità in questa perdita di focus sta proprio nella mancanza di copertura mediatica dello sport al di fuori dei grandi eventi tende a minimizzare o a ignorare i grandi sforzi necessari per arrivare a partecipare proprio in quelle rassegne. I sacrifici, la vita impostata sullo sport, gli incidenti, le operazioni, il recupero… Per arrivare alle Olimpiadi bisogna lavorare tutto un quadriennio (questa volta condensato in tre anni): ogni disciplina richiede prove di qualificazione diverse.
Perciò, essere a Parigi oggi a rappresentare il proprio Paese è già una vittoria nel rispetto dello spirito olimpico
Gli atleti in pedana, in pista o in vasca oggi sono già dei vincitori, che ottengano medaglie o meno, che arrivino in finale o no. Sono nell’olimpo del loro sport e in una ristrettissima élite e hanno tutti i diritti di essere felici per un piazzamento senza medaglia. Come ci può essere la rabbia, chiaramente, perché ogni atleta percepisce in modo diverso la propria prova e il proprio risultato. Tuttavia, la volontà di riprendersi la narrazione e di rompere lo schema per cui senza una medaglia – possibilmente d’oro – si è solo dei perdenti, sembra comune a tantissimi degli sportivi presenti alle Olimpiadi.
Ieri Lorenzo Marsaglia e Giovanni Tocci, tuffatori in sincro dal trampolino da 3 metri, hanno raggiunto il quarto posto e hanno rimarcato la loro felicità nel risultato, consapevoli di aver commesso degli errori, ma anche che gli avversari sarebbero stati comunque fuori portata. E hanno proprio ribadito “che nessuno contesti la nostra gioia” ai microfoni. Rispettiamo la loro decisione ed esultiamo con loro, dal divano, consapevoli che qualsiasi sia il risultato degli azzurri a Parigi, non saremmo di certo in grado di fare altrettanto.
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