In vista della prossima Giornata delle Malattie Rare che ricorrerà il 29 febbraio (un giorno raro per le malattie rare, come ricorda Uniamo), continuiamo a parlare di SLA e come si può vivere con questa malattia raccontando la storia di Valeria, 48enne che ha lanciato una raccolta fondi online per le cure e i trattamenti di cui ha bisogno.
Valeria Firpo risiede da tutta la vita a Campomorone (nell’entroterra di Genova) e ha oggi 48 anni. Ne aveva 37 quando riceve la terribile diagnosi che le cambia la vita. La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, ossia i neuroni posti a controllare i movimenti del corpo sia volontari che involontari. Convivere con la SLA vuol dire dunque perdere progressivamente il controllo degli arti e della deambulazione, ma anche di quei piccoli movimenti muscolari a cui probabilmente non facciamo neanche caso normalmente ma che sono necessari alla vita, dalla deglutizione alla respirazione.
Chi soffre di SLA perde a poco a poco l’uso delle mani, la capacità di camminare, ma anche la possibilità di parlare e di respirare
Ricevendo dunque una diagnosi di SLA, il malato deve prepararsi anche psicologicamente a perdere un po’ alla volta tutte quelle capacità che lo rendono indipendente, e a dover appoggiare sempre di più ai familiari o a operatori sociosanitari. La prognosi al momento della diagnosi può andare dai tre ai dieci anni, mentre solo una piccola parte dei pazienti (un 5%) raggiunge i 20 anni di aspettativa dalla diagnosi. La questione riguarda anche la qualità della vita e i trattamenti a cui un paziente deve sottoporsi per supplire a quelle funzioni minime che garantiscono la sopravvivenza.
Valeria Firpo lo sa bene: da diversi anni vive allettata e dipende dalla tracheotomia che la collega al macchinario che respira per lei. Inoltre, ridotta senza parola da tanto tempo, oggi comunica solo grazie al computer oculare, che traduce in una voce artificiale i movimenti dei suoi occhi sulla tastiera virtuale davanti a lei.
«Mi sono ammalata nel 2013, quando le mie figlie avevano 10 e 7 anni. Ho cominciato a perdere la forza del braccio sinistro, ma non avevo capito la gravità della cosa. Poi ogni 6 mesi circa perdevo l’uso di un arto e la lingua non articolava bene le parole».
Con la conferma della diagnosi nel 2015, Valeria credeva che il suo 40° compleanno sarebbe stato l’ultimo per lei. Con il progredire della malattia, si è resa necessaria la tracheotomia per permetterle di respirare e di conseguenza l’installazione di un sondino per l’alimentazione.
Valeria si è fatta forza per le sue figlie. Per spiegare la sua esperienza con la SLA, ha proposto di immaginare un incubo, la sensazione di non poter fuggire, di sentirsi i piedi di piombo e di non riuscire a urlare. Questo incubo per Valeria si chiama quotidianità.
In quanto dipendente dalle macchine per sopravvivere, Valeria è continuamente terrorizzata all’idea che qualcosa possa non funzionare e causare la sua morte
La SLA obbliga anche le altre persone a confrontarsi con la malattia, ma chi ne soffre oltre a soffrire dei sintomi deve anche sostenere la paura e i commenti di chi li circonda. Proprio per questo Valeria ha lanciato anche un appello a scriverle per fare divulgazione su cosa voglia dire vivere con la SLA e come amici e familiari di una persona che deve vivere con questa patologia possono essere d’aiuto. «Basta avere tanta buona volontà e amore», continua Valeria.
Non c’è una cura per la SLA, solo ipotesi e farmaci che tutt’al più possono solo rallentare il progredire della malattia. Un esempio è il Tofersen, che per ora in Italia è somministrato solo come farmaco compassionevole e che interviene per tardare il presentarsi dei sintomi, in particolare nei malati di SLA con la mutazione nel gene SOD1.
La notizia del milione di euro che la Fondazione AriSLA intende investire in 7 nuovi progetti di ricerca, con il coinvolgimento di 13 gruppi di lavoro in tutta Italia, fa sicuramente sperare bene. Tuttavia, per i tanti malati che oggi cercano il modo per convivere con la SLA hanno bisogno di attenzioni costanti, soprattutto più il decorso del controllo del movimento va avanti.
Negli anni, Valeria ha cercato di avere accanto le persone più adatte per prendersi cura di lei
Anche per dare un senso alla propria condizione, Valeria ha visto entrare e andare tanti operatori sanitari e badanti in casa sua, cercando di «dare un lavoro a chi ne avesse avuto veramente bisogno; scelta sbagliata perché una volta risollevati e con un po’ di soldi in tasca se ne andavano, tranne due che, sante donne sono ancora con me».
«Questa malattia è troppo poco conosciuta, nessuno sa cosa fare con un malato di SLA con tracheostomia, io e le mie badanti abbiamo formato ogni singola persona che è entrata in questa casa».
Trovare le giuste persone è complesso, ma anche interfacciarsi con le istituzioni, che forse non hanno ancora un chiaro quadro di cosa voglia dire vivere con la SLA.
«L’unico aiuto economico è stato dalla Regione e ho rischiato di perdere anche quello, quando sono state abbassate le soglie per entrarci», continua a raccontare Valeria, che si trova anche nel paradosso della diagnosi precoce. «Mi sono sentita dire che non potevo avere le cure domiciliari perché non ero anziana, materassi anti decubito usati, che ogni mese si rompono ma non ci sono i fondi per comprarne di nuovi. Ho una fisioterapista Aism una volta a settimana, una infermiera sporadica dalla Gigi Ghirotti, che però ti garantisce le cure palliative quando decidi che non ce la fai più e vuoi morire».
Le condizioni di Valeria richiedono un’attenzione continua. Anche per questo la donna ha deciso di aprire una raccolta fondi su Go Fund Me (https://www.gofundme.com/f/aiuta-valeria).
Intervista di Marco Repetto, riprese video di Mauro Repetto Pinna.
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