C’era uno che diceva: “chiami il cane e lui viene, chiami il gatto e lui prende nota della chiamata e ti farà sapere“.
Paprika è uno dei miei cinque gatti ed è una delle femmine più affascinanti della mia vita. Era bruttina da cucciola, col musetto appuntito e le orecchie a punta come Mr. Spok di Star Trek, ma si dice “brutta in culla, bella in piazza” e così è stato.
Quando la gatta Sparisci morì di infarto, con mia moglie dovemmo cercare urgentemente una compagna per Polvere che, rimasto da solo, stava cadendo in depressione. Trovammo questa gattina tricolore bianca-nera-arancione. Era rùstega e selvatica, una teppistella della Pigna di Sanremo; a Napoli sarebbe stata una scugnizza dei Quartieri Spagnoli. Selvatica ma con momenti di tenerezza: ad esempio le piaceva fare “l’agnello del Buon Pastore”, cioè salirmi sulle spalle e sdraiarsi intorno al mio collo. E andavamo in giro per casa così.
Adesso ha nove anni e mezzo e diventando adulta si è imbellita, è in carne, morbida, con un bel pelo soffice indice di sana alimentazione (e vorrei vedere, con quello che spendo per nutrire i miei gatti…); le piace molto fare barba-muso, ama sfregarsi col muso sulla mia barba del mento, si struscia, mi mordicchia….
Nelle sere d’estate sta fuori a lungo, apprezza le “cacce” serali, sta infrattata nel cespuglione del plumbago grosso sotto il Pino Storto, passa delle mezz’ore immobile, zitta… mi fa pensare a Snoopy quando fa Joe Falchetto che tira tardi al circolo studentesco a lumare le pupe. Paprika tira tardi a lumare topolini, o chissaché.
Poi nel buio della notte torna a casa a dormire, a volte le fischio per chiamarla ma per lo più se ne frega e rientra quando decide lei. Che il papà umano non si permetta di darle ordini, perbaccomiao!
Ma le voglio bene anche così, o forse “proprio così”, gatta fino all’ultimo pelo tricolore.