Tra le meraviglie del barocco catanese, ce n’è una che va oltre la bellezza stilistica con il suo alternarsi di marmo bianco e pietra lavica, la Porta Uzeda, che rappresenta l’accoglienza e la disponibilità ad aprirsi ed accettare le diversità.
La band capitanata da Giovanna ed Agostino, che si completa con la forza e l’energia di Raffaele al basso e Davide alla batteria, ha scelto di chiamarsi Uzeda perché questo nome è un richiamo forte alla loro terra e a quella voglia di aprirsi alle novità senza mai dimenticare le proprie radici.
Unica band italiana ad avere inciso una session alla BBC dal grande John Peel, gli Uzeda hanno portato a Catania gli alfieri del D.I.Y., i Fugazi, come esempio di energia positiva per le generazioni future.
Agostino e Giovanna, con la loro gentilezza ed umiltà, hanno sfondato quella porta conquistando il mondo con il loro sound abrasivo e spigoloso, regalandoci continuamente sensazioni incredibili.
Come il titolo del loro ultimo lavoro, il loro suono…resterà sempre in piedi!
Fine anni ’80, i gruppi tornavano a cantare in italiano quando un tuono femminile squarcia la monotonia tra bordate noise ancora acerbe ma già considerevoli. Come e perché nascono gli Uzeda? Cosa ascoltavate in quel periodo?
A. Quello che abbiamo ascoltato nella nostra vita è stato più o meno quello che hanno ascoltato tutti, dalla musica popolare a quella africana, jazz e molto rock, con quest’ultimo termine, si intendeva un sound molto ampio che includeva da Bob Dylan ai King Crimson, ed era l’attitudine ad essere rock, quindi c’era quest’interesse per una gioventù che protestava contro un sistema che voleva essere rinnovato da chi veniva da generazioni differenti, del resto l’evoluzione della storia è sempre stata così… anche se poi ci sono state delle guerre.
Il nostro desiderio era quello di esprimerci musicalmente, avevamo età differenti con gusti ed inclinazioni diverse, abbiamo unito queste nostre passioni. C’era chi era fidanzato e chi era sposata, quando ci vedevamo per le prove ognuno portava un’energia che confluiva nella musica.
Il fatto di provenire da una piccola provincia e di cantare in inglese ha ostacolato i vostri progetti?
A. Il nostro obiettivo era arrivare ad una meta ideale, ovvero esprimersi al massimo della libertà. La nostra musica non doveva essere sottoposta a dogmi né genomi o alchimie concettuali per fare quadrare il cerchio. In quel periodo, c’erano le posse ed il rap che si esprimevano in italiano, ma anche molti gruppi rock. Noi abbiamo deciso di utilizzare l’inglese perché ci veniva spontaneo, non era una scelta a tavolino, semplicemente così riuscivamo a plasmare parole a nostro piacimento.
G. Sapevamo fare così e così abbiamo fatto!
In un’intervista dicesti che il suono rappresentava esattamente quello che stavate vivendo. Cosa intendevi con questa affermazione? Era riferito alla situazione della vostra regione?
G. Sì, era riferito alla nostra terra, a quello che vivevamo, al caos, alla mancanza di prospettive e alle difficoltà che nonostante oggi siano attenuate, continuano ad esserci, non è cambiato granché. Quindi sì, il suono corrispondeva all’ambiente che vivevamo.
Il contatto con Steve Albini, una grande svolta! All’epoca era il massimo dei produttori per la scena noise.
A. No, non è un produttore!
G. Non è un produttore nel senso ché lui non produce, è un ingegnere del suono.
A. Lui è come un sarto, tu gli dici cosa vuoi fare e lui riesce a fartelo su misura!
G. Sì, ha la capacità di capire il suono che cerchi e di riprodurtelo fedelmente, esattamente come lo avevi pensato con i vari strumenti a disposizione, è un tecnico del suono.
Giugno ’95 Ottobre ’99, Fugazi e non solo, a Catania. Come ci siete riusciti?
G. Semplicemente li abbiamo invitati perché ci piacevano le cose che facevano. Ritenevamo che la loro musica, in quel momento, fosse indispensabile al mondo e soprattutto alla società in cui stavamo vivendo, ai giovani che vivevano nello stesso luogo in cui vivevamo noi, quindi per noi era davvero un’urgenza che i ragazzi avessero questo tipo di ascolto, che fossero incoraggiati da presenze musicali forti. Li abbiamo semplicemente invitati perché amavamo quello che facevano e loro da persone grandi e umili quali sono, hanno accettato.
Si palesò la possibilità di andare in America e vivere di musica. La cosa vi aveva spaventato?
G. No, non ci ha spaventato, abbiamo fatto una scelta. Avere un’etichetta americana avrebbe comportato per tantissime altre band la realizzazione di un sogno. La nostra è stata una scelta dovute a tante cose, innanzitutto in Sicilia abbiamo la nostra vita, gli affetti e la famiglia, in quel luogo avevamo prodotto la nostra musica, quindi non sapevamo se cambiando posto sarebbe stata la stessa cosa. Noi amiamo la nostra terra, mentre per tornare alla tua domanda, spaventati no ma avendo una vita ben radicata, abbiamo scelto di rimanere qui.
La soddisfazione di avere registrato una Peel session alla BBC, unica band italiana ad averlo fatto.
G. Sì, anche se la PFM ha suonato alla BBC, però non hanno inciso la registrazione.
A. In realtà abbiamo suonato due volte! Se vai nel sito della BBC, troverai due sessioni, ma ne abbiamo incisa solo una. John Peel, ci chiese se volevamo incidere anche la seconda ma rifiutammo perché avevamo firmato per la Touch & Go e uscimmo con gli stessi brani.
Mi ha fatto molto ridere il fatto che voi in venti minuti avete registrato i brani della session, a fronte delle tre ore canoniche a disposizione della band. È vero che ne avete inciso altre visto che rimaneva ancora molto tempo?
A. Ne abbiamo registrati altri tre! Però quando hanno stampato il lavoro ne hanno tralasciato uno, che invece compare nei titoli, si tratta di “Slow”, quindi alla fine abbiamo solo sei brani anziché sette.
G. C’è stato un buffo qui pro quo!
Certamente una cosa anomala… Come anomalo è il fatto che non avete incontrato John Peel. Come mai non era presente durante la registrazione?
G. Non c’era perché negli orari in cui noi abbiamo registrato non era previsto che lui fosse alla radio. Successivamente abbiamo ascoltato la trasmissione, dove parlava di noi e del fatto che stavamo registrando etc. Non c’era ancora internet, così le nostre strade non si sono incrociate.
A. Gli studi della BBC sono a Londra, mentre lui è di Norwich, a quasi tre ore dalla capitale, quindi per andare a trovarlo saremmo dovuti andare al nord, per questo non ci siamo mai incontrati.
Ho fatto per dieci anni una fanzine e avevo contatti in tutto il mondo, dall’Ecuador al Sudafrica, dalla Malesia alla Lituania e tutti mi rimarcavano il fatto che in Italia ci fossero gli Uzeda. Era difficile fargli capire che eravate più conosciuti all’estero che in Italia non vi sembra assurdo?
G. Il luogo dove vivi, è sempre difficile, soprattutto quando ti poni in una posizione un po’ inusuale rispetto al resto, quindi anche comprensibile, ma non ne abbiamo mai fatto una malattia, nel senso.. e vabbè!
Altri gruppi, hanno avuto un’accoglienza e una promozione diversa, mi vengono in mente i Marlene Kuntz, giusto per rimanere su sonorità più “sostenute”.
G. La nostra storia è stata semplicemente diversa. Loro, che tra l’altro sono dei cari amici, cantavano in italiano e non era poco.
Adesso è quasi normale fare un disco in inglese, a quei tempi non era così. Anzi, eravamo guardati un po’ male ed era inutile spiegare che a noi veniva naturale così, spiegargli che cantavo con una band che aveva un suono molto complesso, era inutile e poi io sono cresciuta con la musica inglese ed americana. Pensavamo che una diversità potesse arricchire, non volevamo metterci in contrapposizione alla scena, questo è quello che sapevamo fare e l’abbiamo fatto.
I vostri lavori hanno scadenze estremamente variabili, al di fuori delle regole del mercato. L’ultimo lavoro “Quocumque jeceris stabit” è del 2019, ben tredici anni dopo “Stella“. Possiamo quindi considerare per voi la band come un bellissimo hobby che ogni tanto usate come sfogo?
G. No, non è un hobby, questi sono i tempi della nostra vita. Non è facile riuscire ad incastrare le cose perché ognuno di noi ha una vita molto complessa dove la musica è ai primi posti. Ci sono la famiglia, gli amici e la musica, quindi non è un hobby perché per noi è estremamente serio ma le tempistiche per incrociarsi e rispettarsi, richiedono tempi dilatati. Soprattutto registriamo delle cose solo quando siamo convinti perché siamo quattro persone molto diverse l’una dall’altra, un pezzo deve piacere a tutti, non è semplice.
Non ci sono tanti esempi di voci femminili nel noise, chi è il tuo punto di riferimento?
G. Mi sono ispirata a moltissime cantanti, non necessariamente di noise, anzi le mie ispirazioni sono varie. Amo molte cantanti, anche uomini, una mia passione grandissima è Van Morrison. Tra le donne direi Ella Fitzgerald, Etta James, mentre tra quelle più recenti ho amato tantissimo Siouxsie, le Throwing Muses, etc. Per quanto riguarda le cantanti noise, direi nessuna, quella è più una mia esigenza .
Pensavo fossi rimasta particolarmente colpita da qualcuna.
G. No, anzi come ti dicevo, le mie aspirazioni erano abbastanza lontane da questo. Però se tu senti Aretha Franklin… ognuno di noi percepisce quello di cui ha bisogno e dentro ognuno di esse, evidentemente, c’era qualche seme che mi ha particolarmente spinto a fare questo.
Siete stati celebrati con il documentario “Do it yourself“, ce ne puoi parlare?
G. Non è una celebrazione su di noi, sulla nostra storia. È la celebrazione della vita, delle difficoltà che può avere una band ma anche chiunque altro si occupi di arte in generale.
Quando vieni da una terra così lontana da tutto, dove è molto più complicata ogni cosa, dai trasporti a quant’altro, e nonostante tutto si decide di fare quello che si vuole, rimboccandosi le maniche. La celebrazione non è nei nostri confronti ma di questo intento, ovvero, “se nessuno sostiene le tue idee, fallo da solo!“
A. Con la consapevolezza di sapere che la libertà non è gratis! La libertà, comporta un sacrificio, ma nella ricerca di questa, uno nemmeno se ne accorge, se fai una cosa che ti piace, non ti rendi conto della fatica. Io spesso suono la chitarra acustica, passano due ore e neppure me ne accorgo e questa è la consapevolezza che la libertà non è gratis, bisogna conquistarla.
Solitamente nei side project si dà libero sfogo a quello che generalmente non si fa. Con Bellini sentivate questa necessità? E soprattutto, come siete entrati in contatto con gli altri componenti della band?
G. No, non avevamo questa necessità, questa è un’altra storia di rapporti umani che ha generato una band.
A. Il side project è molto lontano dal nostro modo di pensare.
G. Prima con Damon (Che, batterista dei Don Caballeros) e poi con Alexis (Fleisig, batterista dei Girls again Boys) avevamo in comune l’etichetta. C’eravamo incontrati, ognuno aveva manifestato stima nei confronti degli altri, poi un anno Demon venne a passare le vacanze in Sicilia e con Agostino fecero qualcosa insieme.
A. Abbiamo fatto qualche concerto in America e poi mi chiese se volessi fare una band, quindi si unì Giovanna, nel frattempo Damon andò via e fu rimpiazzato da Alexis e Matthew.
G. Era una situazione che ci vedeva abbastanza vicini, nonostante le distanze geografiche. Alla base del progetto Bellini c’è il rapporto umano, a noi piace il contattato con le persone.
A. Non ci piace mandare un file con la canzone, noi dobbiamo avere questo rapporto umano. Passeggiamo, parliamo, andiamo al mercato a mangiarci un panino, ci piace il contatto con le persone.
Celebriamo i cinquant’anni di “The dark side of the moon“, e “Quadeophenia “, i quarant’anni di “Siberia” e “Swordfishtrombone“, ma possibile che non ci sia niente oggi che riesca ad entusiasmarci nuovamente?
G. Mah… forse c’è, magari è mischiato a troppe cose, è tutto troppo globalizzato, è come se fosse un grandissimo mercato, quindi ti perdi. Le cose interessanti ci sono e ci saranno sempre, ma, paradossalmente, non è cosi facile trovarle. Una volta erano filtrate dalle etichette, dalle radio, dalle riviste.
A. Guarda è una domanda molto interessante perché ti porta a pensare, ma cerchiamo veramente qualcosa che ci entusiasmi oppure cerchiamo qualcosa per far squadra, per non sentirci soli visto che siamo molto soli, dietro lo schermo del PC.
G. Oppure c’è da dire un’altra cosa: questo è quello che la nostra società attuale sta producendo, non per colpevolizzare. Ogni epoca ha delle espressioni sociali e questa è quella attuale, forse dovremmo ribaltare la domanda: perché non riusciamo ad entusiasmarci delle cose della vita?Guardiamo al passato perché non vediamo niente nel futuro, è troppo oscuro, infatti la pena del mio cuore sono i bambini.