In questi giorni di feste natalizie si pensa subito all’albero di Natale della Capitale soprannominato lo “spelacchio” voluto dall’allora sindaca di Roma, Virginia Raggi, posizionato a Piazza Venezia. Ma quest’anno a causa dei lavori della metropolitana C, il primo cittadino Gualtieri, ha annunciato il suo riposizionamento a Piazza del Popolo.
Per noi romani era l’appuntamento consueto delle feste per immortalare l’albero dalle 200 lucine di fronte la “macchina da scrivere” così soprannominato il Vittoriano o Altare della Patria, e commentare in positivo o in negativo l’operato, riguardo l’albero.
Anche qui, sulla costruzione del Vittoriano, tante polemiche nel corso degli anni, su questo mastodontico monumento a ridosso del Campidoglio. In ogni caso oggi, rimane un simbolo della città.
Eppure il 5 febbraio 1911 fu un giorno memorabile per i romani, accorsi in massa a piazza Venezia per assistere ad un evento davvero eccezionale.
Sull’Altare della Patria, appena completato tra tante polemiche, venne innalzato l’enorme gruppo bronzeo di Vittorio Emanuele II a cavallo, opera del Chiaradia. Il conte Giuseppe Sacconi, autore dell’immensa mole del Vittoriano, era morto da oltre un anno: se non altro, la sorte gli aveva risparmiato di vedere quello che considerava uno scempio ai suoi danni, contro l’arte ed il buon gusto.
Sacconi odiava quella mastodontica scultura, pacchiana e dorata come il colosso di Nerone.
Quando ne vide il modello in gesso, non si poté trattenere dall’esclamare: “Quel brutto cavallo non salirà mai sulla sua base!” Le aveva provate proprio tutte per scongiurare questo pericolo.
Aveva persino trasformato la sotto base della scultura in Altare della Patria, sperando che questo avrebbe impedito al “cavallaccio” di posarci sopra le zampe. Non ottenne, però, alcun risultato.
Il gruppo venne realizzato nella fonderia di San Michele a Ripa.
Vi occorsero cinquanta tonnellate di bronzo ed una spesa di un milione e mezzo, contro il milione previsto. Il cavallo risultò lungo 12 metri, esattamente come l’altezza del gruppo, dal pennacchio del re agli zoccoli del destriero. Fu necessario trasportarlo a piazza Venezia a pezzi, per poi assemblarlo sul posto.
Per il solo busto del re si dovettero usare otto robusti cavalli da traino ed una folla di curiosi sul percorso si divertì a fare commenti sui baffoni di Vittorio Emanuele, lunghi un metro ognuno, e sul curioso copricapo, un ibrido tra un berretto e un elmo, sormontato da un buffo pennacchio. L’argomento principale delle critiche sembra fosse, però, la divisa del sovrano, priva di qualsiasi fedeltà storica. Anche lo spostamento del cavallo non fu da meno, si usarono degli appositi carrelli, che viaggiarono su rotale montate per l’occasione dalla fonderia a piazza Venezia.
Una volta giunta a destinazione, la pancia del cavallo fu teatro di un memorabile rinfresco con vermouth e panini sotto il balcone di Palazzo Venezia. Vi fu allestita una lunga tavolata, a cui sedettero 24 persone.
Nelle foto d’epoca, che hanno immortalato l’evento, si possono riconoscere il sindaco di Roma don Leopoldo Torlonia, il Ministro dei Lavori pubblici Bertolini, lo scultore Trentanove, il fonditore Bastianelli e numerosi giornalisti.
L’inaugurazione vera e propria della statua equestre si tenne nella piovigginosa mattina del 4 giugno successivo, alla presenza di Vittorio Emanuele III e della famiglia reale, con l’intervento dei reggimenti, dei veterani della spedizione dei Mille, delle rappresentanze di cento città d’Italia, di seimila sindaci, in una scenografia di bandiere, gonfaloni, aquile romane di cartapesta, bande e fanfare.
Foto di copertina di Roma archeologica