Ivo Milazzo è colui che con il suo tratto gentile, diede vita quasi cinquant’anni fa ad uno dei personaggi più amati di sempre, Ken Parker, un fumetto innovativo che rivoluzionò la scena italiana e non solo.
In occasione del Comics di Albissola, lo abbiamo incontrato ripercorrendo la sua lunga ed emozionante carriera.
Un artista assolutamente poliedrico, con un grande senso umano ed un’innata signorilità che si rispecchia fedelmente nei suoi lavori.
LUNGO FUCILE FA ANCORA SOGNARE
In un’enciclopedia del fumetto online, in un curioso quanto anomalo ordine alfabetico per nome, sei tra Hugo Pratt e Jean Giroud. Un segno del destino? Un grande tra i grandi?
Sicuramente sono due maestri che hanno saputo innovare con grande personalità questo mondo mediatico che reputo irripetibile, proprio per le sue componenti che sono uniche ed apparentemente immobili, ma che in realtà devono usufruire dell’energia che viene espressa dal fruitore. Quell’energia apparentemente statica, dà tutto un movimento che non appartiene al mondo del fumetto, grazie alla parte creativa grafica e a quella letteraria.
Quindi Ivo Milazzo si inserisce ottimamente in questo contesto, visto quello che ha apportato al mondo del fumetto?
Beh, io sono sicuramente più figlio, come scelta stilistica, di Hugo Pratt perché lui ha fatto una scelta legata al disegno espressionista, dove è più importante l’essenza dell’immagine in sé, più che del dettaglio, mentre Jean Giroud ha fatto un doppio percorso sia con “Blueberry” che, come Moebius, con la fantascienza, dove ha creato un disegno illustrato tipo quello inglese, che va a stimolare la parte più razionale, ma la bellezza del suo disegno è legata anche a ciò che riesce a trasmettere con i contenuti che, in qualche modo, vanno a stimolare l’inconscio, ma è un discorso molto complicato.
Il disegno di Pratt invece è molto particolare, spesso onirico ed introspettivo, non facile da decifrare.
Hugo Pratt, aveva conosciuto Jodorowsky, un personaggio particolare e controverso, legato alla psico-magia, quindi a tutto quello che riguarda il nostro immaginario ed il nostro inconscio. In qualche modo è stato condizionato anche dallo sciamanesimo messicano, quindi dalle pratiche del peyote e quant’altro, ma la cosa straordinaria, legata a questo dettaglio, è che lo sciamanesimo visto con l’occhio occidentale è il guaritore, il mago di turno che vuole turlupinare la buona fede di chi è in uno stato di sofferenza. In realtà il percorso che fa lo sciamano è molto particolare perché deve entrare in connessione con la natura, con le sue risorse ed energie. Essi sono connessi con queste, ad esempio un terreno asfaltato, non può emanare queste energie perché l’asfalto ne blocca il flusso.
Quando si fa un discorso mediatico come il fumetto, che è legato ad una pseudo staticità, và a sollecitare una connessione tra chi crea le emozioni e chi le riceve, che dovrebbe avere la sensibilità di capire quali sono le proprie emozioni nascoste.
Queste sono nascoste per un motivo preciso, perché la ragione fa soffrire, quindi il subconscio le occulta, allora tu quando guardi un quadro, ascolti un brano musicale o quant’altro, non riesci a capire perché provi un’emozione, sia essa negativa, positiva, oppure nulla, tutto è dettato dal tuo background personale.
Da sempre ci sono state grandi collaborazioni: Uderzo con Goscinny, Grassani col compianto Montanari e poi voi, Milazzo e Berardi. Che collaborazione è stata? Difficoltosa oppure vi capivate sempre all’istante?
Noi abbiamo lavorato insieme venticinque anni, ci siamo conosciuti sui banchi del liceo, in realtà è evidente che avevamo qualcosa che ci ha fatto riconoscere.
Avevamo dei desideri comuni, ci sentivamo tutti i giorni e quello che condividevamo era tutto molto immediato, non avevamo bisogno di molte spiegazioni, c’era un immaginario comune, che ci ha permesso di fare una serie di prodotti che sono rimasti nel mondo del fumetto in maniera significativa, sia per noi che per i lettori, regalando delle emozioni, più che per la capacità tecnica.
Chi scrive tende sempre a suggestionare l’altro che deve rappresentare il suo pensiero, ma non funziona così. Io che disegno devo rappresentare un mondo suggerito dal suo pensiero, definendolo poi secondo i miei canoni, e questa è la ricchezza della collaborazione.
I rapporti interpersonali sono sempre complicati, la cosa essenziale è che il rapporto duri sino a quando c’è quell’energia comune, dopo continuare non ha senso.
Ken Parker è sempre stato un fumetto anomalo in tutto e per tutto. Dal numero 46 “Adah”, dove per tre quarti di fumetto non compare il protagonista, all’omaggio nel numero 15 “Uomini, bestie ed eroi” a tantissimi eroi dei fumetti come Tex, Zagor, il sergente Kirk, Lucky Luke, Blueberry, Cocco Bill etc., l’utilizzo dell’acquerello, hanno contribuito a farne un fumetto d’autore. Eravate consci del grande lavoro che stavate facendo? Un fumetto che, a distanza di cosi tanti anni, entusiasma ancora!
Quando inizi non sai come andrà a finire, giochi la tua parte istintiva, giochi con quello che sei, con la tua formazione personale ed intuitiva.
Ovviamente a noi interessava esistere facendo qualcosa con continuità e con la tecnica che ti permette di realizzare le tue idee e renderle fruibili. La genialità delle parole e delle immagini sono dettate da un quid che non si può descrivere.
Ken Parker non ha mai avuto un successo da cassetta tipo Tex, è stato un personaggio differente, non era importante la vendita, proprio perché era “difficile”, non era un personaggio tetragono che deve trasmettere sicurezza, ovviamente richiedeva un’attenzione particolare del lettore ed andava a sollecitare quella che era la sua parte debole, quella che teniamo nascosta, noi non vogliamo apparire deboli, ci insegnano ad avere una montagna di muscoli per menare tutti, perché così siamo forti, non abbiamo capito nulla in occidente.
A fronte di dati di vendita negativi sareste andati avanti ugualmente oppure no? Magnus dopo tre numeri era indeciso se continuare ad uscire con Alan Ford, viste le scarse vendite. Voi credevate tanto in questo progetto?
Noi credevamo nelle nostre risorse, avevamo una capacità personale forte unita ad un grande desiderio di comunicare con l’altro, come diceva James Hillman, famoso psicoterapeuta americano recentemente scomparso, a riguardo della creatività definendola come “una potente energia, che porta l’individuo ad occuparsi di sé stesso, creando un nesso con l’altro”.
Quindi, ciò che noi esprimiamo a livello creativo, ci mette in connessione con l’altro e senza di questo, sia nel fumetto che nella vita, non saremmo nulla. Quindi io, oggi, senza il consenso e l’affetto dei lettori, sarei semplicemente Ivo.
Sicuramente, ma questo affetto deriva dal grande lavoro che avete prodotto!
Prima mi hai fatto una domanda legata all’acquerello. Vedi, questa è una tecnica particolarissima perché non permette ripensamenti fondamentali, io amo l’odore della carta, della materia, il gesto che produce. Per me realizzare un’acquerello, vuol dire percepire prima di realizzarlo, un’immagine ed un’emozione che deve trasmettere, quella determinata immagine e quel determinato colore. Pertanto, devo immagazzinare le emozioni che io, in primis, devo provare, per poterle trasmettere agli altri.
L’utilizzo dell’acquerello è sicuramente una scelta inconsueta per un fumetto. Come mai hai optato per questa tecnica?
L’acquerello, prevede un discorso espressivo dove la razionalità è poco presente. Tu devi costruire nel tuo immaginario ciò che vuoi esprimere con quei colori, ma poi devi lasciare fare alla materia. Il colore, l’acqua, la carta in base ai giochi, creano un mondo che tu forse avevi immaginato ma che in un certo senso ha vita propria, è questo che mi ha colpito dell’acquerello.
Hai frequentato qualche scuola oppure sei semplicemente autodidatta?
Autodidatta! Ti posso assicurare che la scuola in generale, serve per formare gli individui e dargli una traccia da seguire, una formazione. In realtà ognuno poi deve trovare la sua strada, il rischio, se tu fai un percorso accademico, è quello di rimanere legato, incasellato in quello che ti hanno insegnato, a meno che tu non abbia un impulso interiore così grande, così potente che ti permetta di andare oltre, quello che io chiamo il libero arbitrio, che ci permette di uscire da scelte precostituite che ci portano a fare scelte non dettate dalla nostra volontà, ma dalla volontà di qualcunaltro. Noi dobbiamo imparare a capire ciò che siamo in realtà per essere veramente noi, come diceva Jung “Il sé più profondo”, quello che inizia dalla parte esterna, in base alle percezioni che ricevi dall’esterno, e da quella interna, che arrivano dalla tua essenza personale, andando così a trovare il tuo “sé”, capendo la grande differenza che c’è tra l’”io” che è la maschera quotidiana, ed il “sé”, che è il vero te stesso.
Io credo di essere un privilegiato per il lavoro che faccio, ma per capire questo, ci ho messo più di venti anni, alla fine ho capito che ognuno di noi, ha un ritmo personale. Victor Hugo diceva “Per la realizzazione di un’idea, c’è sempre un tempo giusto”, e così è per l’essere umano, io ho un ritmo lento, ho bisogno del mio tempo per realizzare le mie cose.
Questo influiva negativamente sulla preparazione di un nuovo episodio?
Berardi mi passava una storia e noi avevamo una scadenza. Naturalmente me la dava a tempo debito, ma io stavo un periodo senza disegnare. Giancarlo mi chiedeva se stessi lavorando alla sceneggiatura e io gli rispondevo: “Sto pensando” facendolo imbestialire.
Io avevo bisogno di un tempo per assimilare, così avevo un tempo limitato per realizzare la storia. In questo, la serialità, mi ha portato a trovare delle soluzioni grafiche per abbreviare le tempistiche. La scelta iniziale, figlia dell’espressionismo a cui si ispirava Pratt, mi ha aiutato. Avessi avuto un approccio accademico con il tratteggio, con i dettagli, sarei stato rovinato.
Il gioco tra luci ed ombre, mi ha aiutato a sopperire alla mancanza di tempo.
Una curiosità: ispirato al Robert Redford di “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, anche Ken Parker nel primo numero, appare con la barba, salvo poi sparire magicamente dal secondo in avanti. Si narra di strane congetture verso i portatori di barba, com’è andata realmente la storia?
È legato al fatto che la prima storia, Sergio Bonelli, ce l’ha fatta fare per capire chi fosse il personaggio e faceva parte di una collana nominata “Rodeo”, raccoglieva delle storie singole, quando non si prevedeva una serialità.
Durante il percorso aveva intuito che Ken Parker poteva diventare un personaggio, perché lui era un grande editore ed aveva una percezione potentissima dell’altro.
Quando ci disse che poteva diventare una serie, per noi fu come trovare l’oro nel Klondike, perché ci avrebbe permesso di avere una continuità lavorativa.
Ci disse subito che i personaggi con la barba non avevano un grande successo, perché sembrano vecchi e davano l’impressione sbagliata al lettore, quindi essendo un fumetto seriale, dovevamo fare un percorso di lifting. Berardi si inventò un colpo di pistola che colpendolo di striscio gli rovinò la barba, decidendo così di tagliarla.
Il rapporto tra cinema e fumetti è sempre stato molto interessante. Jean Giroud ha fatto i costumi per “Alien” di Ridley Scott, Emanuele Taglietti ha lavorato con Sergio Leone, Federico Fellini, Ettore Scola etc. Proprio con Ettore Scola hai collaborato anche tu. Che esperienza è stata, visto che l’hai definita come “un regalo della vita”?
L’ho definita così perché ho conosciuto una persona straordinaria. Io lo conoscevo per i suoi films, ma non personalmente. L’umanità che riusciva a trasmettere con i suoi film è la stessa che mi ha trasmesso quando ci siamo incontrati. La sua leggerezza, la semplicità, il suo riconoscimento dell’altro. Avrebbe potuto farmi pesare la sua storia, la sua importanza di regista, invece, assolutamente no!
È stato molto semplice, come lo sono le persone consapevoli e colte, che sanno cogliere la ricchezza dell’altro, lui era un uomo di cinema e queste cose le capiva.
Scola aveva nel cassetto due sceneggiature, anzi una era una sceneggiatura e l’altra un trattamento, che è la fase precedente alla sceneggiatura, ovvero una parte scritta che sembra una novella che riporta i dialoghi con una trama essenziale. Mi ha dato una sceneggiatura finita ed il trattamento dicendomi “Secondo me, non ne esce niente, non si può fare un fumetto” ed io ho risposto “Dubito che non esca niente da una persona che ha un’umanità come la tua”. Io non avevo dubbi, per me era già un regalo averlo incontrato e avergli parlato.
Poi lui mi ha regalato, per i quattro anni che ci ha dato la vita, una frequentazione. Lui mi telefonava per farmi gli auguri, una persona di una semplicità che non ci si può non emozionare.
La moglie mi raccontava che quando ho iniziato a mandargli le tavole, ogni dieci, colorate ed ultimate, per sapere se erano in linea col suo pensiero che lui non mi ha mai espresso, mi riempiva di complimenti, dicendomi che ero bravissimo. Se trovava qualcosa che non riteneva perfetto nella comunicazione, me lo diceva, ma insisteva perché scegliessi io. Quando ritardavo a mandargli le tavole, lui era in ansia perché voleva vederle, era curioso di vedere come ero riuscito ad interpretare il suo pensiero, e questo è stato un altro regalo per me!
Sempre la moglie, mi ha detto che quando ci siamo conosciuti, ha pensato: “Ivo non sa in che mani si è messo”, perché Ettore Scola era molto esigente con sé stesso e con tutta la troupe cinematografica.
Quando ho terminato il mio lavoro, anche la figlia Silvia mi ha detto: “Sei riuscito a realizzare qualcosa, con i mezzi che avevi a disposizione, in maniera assolutamente unica”.
Il lavoro si intitola “Un drago a forma di nuvola”, ci racconti brevemente la storia?
È la storia del rapporto tra un padre ed una ragazza che a causa di un incidente non può parlare, quindi si esprime con la forza del pensiero.
Ma come fai ad esprimerlo? Devi avere una voce narrante, infatti, Sergio Castellitto che ne ha poi tratto un film, ha fatto una pièce teatrale, cambiando lievemente la trama, perché era davvero complicato rappresentare la figlia che è il drago, perché lei è una potenza unica, quella che mantiene legato il padre a sé.
Galeppini, Roi, Alessandrini, Magnus, Ambrosini e Milazzo. Cosa unisce questi grandi artisti?
Beh… il Texone! Devo dire che affrontare la storia di un personaggio così potente a livello mediatico come Tex, è stato confrontarmi con la mia infanzia, ha fatto parte del mio immaginario.
Visto che il mio stile si compone anche di vignette senza quadratura su sfondo bianco che suggerisce la tridimensionalità, sapevo che Sergio, legato ad una forma differente, non capiva più di tanto, malgrado fosse una persona molto intelligente, gli ho dunque chiesto quante vignette potessi mantenere in una pagina e lui mi disse “Massimo due!”
Io naturalmente ho rispettato questa sua richiesta, mi muovo in base a quello che la vignetta deve comunicare al lettore, ma sapevo anche che i codici di Tex erano potenti, doveva rappresentare quel personaggio che viveva da oltre cinquant’anni nell’immaginario dei lettori, quindi dovevo riconoscergli quello che lui fosse, senza stravolgere, ma con la mia personalità.
Ho potuto farlo perché era il Texone, altrimenti negli albi seriali, non so se sarei riuscito a farlo, alla fine comunque con Sergio abbiamo avuto una discussione perché l’ultima vignetta della storia, che finisce con una dissolvenza, quindi con una vignetta totalmente scontornata ripresa dall’alto, che è la fine della storia, della vicenda, che prescinde da Tex, dalla vicenda umana intrinseca al racconto, lui non la vedeva, voleva vederla chiusa, allora io gli ho detto “Se la mettete chiusa, non esce l’albo!” poi naturalmente c’è stata la mediazione di Decio Canzio quindi…
Per me quella vignetta scontornata era importante perché era il mio stile, se finiva squadrata finiva il discorso narrativo, non era significante a livello emozionale.
Nel cinema, dove esistono dissolvenze di apertura e di chiusura, con quella di chiusura significava che finiva la storia, ma l’importante è ciò che comunica quell’immagine, quindi per me era fondamentale. Questo fa parte dei diritti morali che appartengono agli autori, dove nessuno può interferire.
È ovvio che bisogna riconoscere la linea editoriale ed imprenditoriale della persona che investe sul tuo lavoro, ma deve esserci un equilibrio.
Chiudo con una speranza più che altro. In futuro, possiamo aspettarci ancora qualche storia di Ken Parker che, magari, giace in un cassetto?
Non disegnata da me è possibile. Nel senso che io ho percepito, con l’ultima storia, che è finito un periodo.
Quel periodo di grande empatia che c’era tra gli autori, era finito. Pertanto, nel momento in cui non c’è più lo stesso entusiasmo, la stessa potenza mediatica, perché c’è una ripetitività nel disegno, nella scrittura, a prescindere, vuol dire che è finito il tempo.
Io potrò fare ancora delle copertine, se sarò vivo, non so’ Berardi se vorrà scrivere delle storie o le farà sceneggiare da altri, sono scelte che riguardano lui. Se nasceranno degli spin off come sono adesso chiamati, noi sceglieremo degli autori che sono compatibili con quello che era la linea del personaggio.
Però diciamo che dipende tutto dalla linea imprenditoriale di un editore, se lui riesce a percepire una via di emozioni da parte dei lettori che hanno reso ancora vivo nel mondo immaginario, Ken Parker.
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