Un blocco di marmo di due tonnellate e mezza. È il dono ai Genovesi di uno straordinario scultore: Pablo Damian Cristi, artista argentino dalle antiche radici genovesi.
Giunto il 3 giugno a Moneglia con un trasporto eccezionale dal suo studio di Carrara, quel marmo vibrante di candida luce è per Pablo una sfida estrema. Dal 2021 vi ha iniziato a sbozzare un’opera d’eccezione: il Terzo Cristo Portacroce. Che lo pone in relazione diretta con l’autore dei primi due, scolpiti 500 anni fa: Michelangelo Buonarroti.
Il committente della nuova statua, che come le precedenti sarà alta oltre due metri, è la stessa casata genovese storicamente legata alle prime due: la famiglia Giustiniani, diramata oggi in vari Paesi del mondo.
Il suo Archégete (o Governatore) – vera anima propulsiva del progetto – è Jerȏme-Luc Muniglia Giustiniani, la cui stirpe, originaria di Moneglia, dopo lunghi, secolari spostamenti tra Oriente e Occidente, da pochi anni si è ristabilita a Genova.
Il blocco di marmo, con il supporto del Comune di Moneglia e della famiglia Bollo, è stato posizionato in un’area scoperta di proprietà di quest’ultima, all’interno delle mura del diruto castello di Villafranca, sul capo orientale del borgo rivierasco.
Il 16 giugno Pablo ha dato il primo colpo di scalpello al blocco di marmo alla presenza del sindaco di Moneglia, Claudio Magro.
“Questo blocco di marmo l’ho scelto nelle cave di Carrara, in un’area dove aveva operato anche Michelangelo. In origine pesava otto tonnellate – spiega Pablo, che ha curato anche le delicate operazioni di trasporto – Il progetto prevede che la scultura sia proseguita da me in questo ambiente nei prossimi mesi. Il pubblico in certi orari potrà assistere. Quest’estate, oltre a un’esposizione di mie opere, sono previsti altri eventi culturali collaterali. A marzo del 2023 la statua verrà poi trasportata via nave a Buenos Aires, dove, col patrocinio del governo argentino, sarà da me portata a termine”.
Quale sarà la destinazione finale di questo misterioso Terzo Cristo Portacroce Giustiniani?
Per ora resta top secret, ma sarà comunque legata a Genova e alla sua millenaria storia di città cosmopolita.
Per comprendere il vero senso di questo fatto di cronaca infatti bisogna retroagire nella Storia di almeno sette secoli.
La casata Giustiniani genovese (da non confondersi con l’omonima veneziana) nacque a Genova, nell’omonimo Palazzo, il 14 novembre 1362 per aggregazione in ‘clan’ (o meglio, ‘Albergo’, peculiare istituzione genovese) delle dodici famiglie patrizie già unite nella Maona di Chio, sorta di società per azioni (la prima documentata), la cui costituzione era avvenuta, sempre a Genova, il 27 febbraio 1347.
Ogni Maonese era titolare di una quota di capitale di rischio conferito alla Maona per finanziare imprese armatoriali e mercantili nell’Oltremare ed aveva un correlativo, proporzionale diritto agli utili che ne fossero derivati.
Nel 1362 i compartecipi della Maona decisero di assumere tutti ex novo il cognome Giustiniani, anteponendolo al proprio.
Entrò poi a far parte della Maona, insieme ad altre, anche la nobile stirpe dei Moneglia (che nei successivi spostamenti mutò il cognome originario in Muniglia).
La Maona aveva il suo centro nell’isola di Chio, a poche miglia dalla costa anatolica, nell’Egeo nord orientale. Una curiosità linguistica: nell’isola fu a lungo diffuso un dialetto coloniale genovese (il chiotico).
Già tra 1304 e 1329 Chio era stata dominata dalla dinastia genovese degli Zaccaria, la cui potenza ebbe il suo primo fautore in Benedetto Zaccaria, grande diplomatico, mercante e ammiraglio, vittorioso nell’epica battaglia navale della Meloria (1284), nella quale Genova aveva sconfitto la rivale Repubblica marinara di Pisa.
Nel 1346 i Genovesi, grazie alla vittoriosa spedizione navale dei futuri Maonesi, riconquistarono Chio, sostituendosi ai Greci nell’amministrazione dell’isola.
Nel 1349 l’Imperatore di Bisanzio riconobbe la signoria della Maona.
Da allora l’isola per oltre due secoli fu una cruciale colonia genovese d’Oltremare, amministrata collegialmente dai Patrizi membri della Maona per conto della Repubblica. E nota nel mondo per il prezioso mastice di Chio, sorta di medicamentoso chewing gum medioevale ricavato dalla resina della specie unica di lentisco che cresce nell’isola.
La signoria della Maona, intesa allo sfruttamento economico delle ricche risorse coloniali, si estendeva anche alle isole di Cos, Samo, Icaria, Eunussa, Panagia. E sulla terraferma: sulle due città di Focea e sui vicini giacimenti di un prezioso minerale: l’allume (essenziale per fissare i colori sulle stoffe). Come il mastice, fu a lungo un monopolio genovese.
Come osservò il grande storico Roberto Sabatino Lopez: “La delega su carta di funzioni statali a un’associazione armatoriale e commerciale privata e altri elementi comuni fanno si che la Maona Giustiniani si possa considerare sotto alcuni aspetti il più remoto precursore della famosa Compagnia delle Indie”.
Peraltro, come ha altresì osservato Michel Balard, uno dei maggiori medievisti viventi, non si trattava di una colonizzazione tirannica: per i Genovesi “era sufficiente coinvolgere le élite indigene e lasciare loro una parte dei profitti, mantenendo la gente comune nella propria condizione ancestrale”.
Dopo la caduta dell’Impero cristiano d’Oriente, con la conquista da parte dei Turchi, nel 1453, di Bisanzio-Costantinopoli (difesa fino alla morte da Giovanni Giustiniani Longo e dalle sue milizie) Chio, estremo avamposto cristiano, resistette ancora 113 anni all’avanzata dell’Islam: sino al 1566, quando fu invasa e annessa all’Impero Ottomano.
A causa delle terribili persecuzioni che ne seguirono (quali il martirio dei 18 fanciulli Giustiniani) vari Giustiniani, tra cui gli antenati di Don Jerȏme-Luc, anziché restare sull’isola (dove tuttavia vivono ancora discendenti della casata), cercarono rifugio a Genova, Roma, Napoli, in Sicilia o in altri Stati dove già erano insediati facoltosi rami della famiglia.
Intanto a Genova dal 1528 l’Albergo dei Giustiniani, al quale avevano aderito ulteriori famiglie patrizie, era stato formalmente riconosciuto dallo Stato in tutte le sue prerogative, nel quadro della riforma della Repubblica in senso aristocratico voluta da Andrea Doria. Ne proverranno otto Dogi.
Anche a Roma la casata, composta di ricchi prelati, banchieri intellettuali e uomini d’armi, parallelamente aveva acquisito un ruolo centrale tra le famiglie nobiliari. Suo, per esempio, fu il Palazzo Giustiniani, oggi sede della Presidenza del Senato della Repubblica italiana.
Tra i Giustiniani più eminenti, il Marchese Vincenzo (Chio 1564 – Roma 1637), ricchissimo banchiere, intellettuale e mecenate, fu uno dei massimi collezionisti di opere d’arte. Anche del contemporaneo Caravaggio, di cui fu il primo estimatore.
Dato questo contesto storico e culturale, emerge con maggior chiarezza quale nesso possa aver avuto Michelangelo con i Giustiniani.
L’antefatto, che ci riporta nella Roma rinascimentale, ce lo racconta Nicoletta Giustiniani nel suo ‘Discorso sopra il Cristo Giustiniani di Michelangelo Buonarroti’: “Nel 1514 Michelangelo si impegna con Metello Vari a consegnare ‘una fighura di marmo d’un Christo, grande quanto el naturale, ingnudo, ritto, chon una chroce in braccio, in quell’attitudine che parrà al detto Michelagniolo’. Un lavoro che si rivelò alquanto tormentato”. E che comportò “la creazione non di una, ma di due statue. La più nota è esposta nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva”.
Si tratta, però, di una seconda versione (del 1519-1520). La prima, per secoli “creduta ormai perduta, fu invece abbandonata dal Maestro che, mentre la scolpiva, si accorse di una vena nera nel marmo proprio all’altezza del volto: ‘…reuscendo nel viso un pelo nero hover linea…”. Venduta al Marchese Vincenzo Giustiniani un secolo dopo, rifinita probabilmente da Gian Lorenzo Bernini, se ne persero le tracce fino alla fine degli anni Novanta del XX secolo, quando fu ritrovata nella chiesa di San Vincenzo Martire a Bassano Romano” di proprietà dei Giustiniani.
Secondo la ricostruzione di Enrico Giustiniani e Gianni Donati nel libro “La vena nera, una storia michelangiolesca“, la statua “rifinita nel 1620 da un giovane Gian Lorenzo Bernini per conto del Marchese Vincenzo Giustiniani, nel 1644 fu portata nella Chiesa di San Vincenzo a Bassano Romano e lì rimase dimenticata, ignorata perfino dai nazisti in ritirata nel 1944, fino al 1999 quando fu finalmente riattribuita a Michelangelo“.
La conclusione di Nicoletta Giustiniani è intrigante: “Il mistero sull’artista che ha rifinito il Cristo Giustiniani non è risolto, anche se è affascinante pensare che, per la prima volta nella storia dell’arte, la stessa opera potrebbe portare la firma di due geni assoluti di tutti i tempi: Michelangelo e Bernini”.
Spiega Don Jerȏme-Luc Muniglia Giustiniani: “Nella tradizione della mia famiglia, questa committenza a Pablo Damian Cristi, il Michelangelo genovese, si inscrive nella trilogia che comprende i due precedenti Cristi Portacroce Giustiniani. Il primo di Michelangelo Buonarroti, oggi a Bassano Romano, ha una postura composta che rinvia alla stabilità del Padre che riposa dopo la Creazione. Il secondo, oggi nella Chiesa della Minerva, è legato anch’esso ai Giustiniani, giacché prima di lì fu posto nella cappella del vicino palazzo del Marchese Vincenzo. Il senso di movimento impresso da Michelangelo a questa statua evoca il vortice luminoso della Risurrezione del Figlio. Infine il Terzo Cristo Giustiniani, colto nell’atto di avanzare con la Croce (che non impone, ma propone all’Umanità), nella sua postura eterea alluderà allo Spirito Santo”.
Chi scrive può testimoniare la grandezza di quest’opera. Il suo artefice e Jerȏme-Luc Muniglia Giustiniani mi avevano concesso il privilegio di visionarne il modello in gesso a grandezza naturale nello studio di Carrara già nel luglio 2020, quando l’impresa sembrava tanto grandiosa quanto temeraria e, comunque, da tenere riservata.
Ora, invece, sta divenendo realtà.
Marco Bonetti