Giorgio Caproni Res amissa
Giorgio Caproni

16 Giorgio Caproni: tutti riceviamo un dono che poi non ricordiamo più

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Tempo di lettura: 2 minuti

 

   Tanto per non finire:

la morte, già così allegra

a viverla,

ora la dovrei morire?

 

   (Non me la sento,

d’ucciderla.)

 

Foto Patrizia Traverso

 

Giorgio Caproni e la “Res amissa”.

Giorgio Caproni muore il 22 gennaio 1990 e lascia incompiuto il manoscritto della sua ultima raccolta che, curata da Giorgio Agamben, esce postuma nell’aprile del 1991 presso Garzanti, con il titolo di Res amissa.

Res amissa è anche il titolo della poesia-guida della raccolta che, con le sue “variazioni”, costituisce il “tema” su cui l’ultimo Caproni si è esercitato.

“È un componimento piuttosto lungo “(allargato dallo spalancarsi dei vuoti di silenzio aperti dal poeta), che val la pena però di ritrascrivere per intero, per non perdere attraverso i tagli antologici la dimensione di compattezza che lo connota e l’eloquente sgomento che suscita.” Luigi Surdich, Giorgio Caproni, Un ritratto.

 

Giorgio Caproni
Giorgio Caproni

 

Non ne trovo traccia

  Venne da me apposta

(di questo son certo)

per farmene dono

Rivedo nell’abbandono

del giorno l’esile faccia

biancoflautata…

                     La manica

in trina…

              La grazia,

così dolce e germanica

nel porgere…

                     Un vento

d’urto – un’aria

quasi silicea agghiaccia

ora la stanza…

                  (È lama

di coltello?

                 Tormento

oltre il vetro ed il legno

– serrato – dell’imposta?)

   Non ne scorgo più segno.

Più traccia.

 

Chiedo

alla morgana…

                   Rivedo

esile l’esile faccia

flautoscomparsa…

                        Schiude

– remota – l’albeggiante bocca,

ma non parla.

                  (Non può

– niente può – dar risposta

  Non spero più di trovarla.

L’ho troppo gelosamente

(irrecuperabilmente) riposta.

 

Res amissa, la cosa perduta: che cosa sia, Caproni non ce lo dice

ma sappiamo che si tratta di un “dono” (al quarto verso subito rimato con abbandono), un dono ricevuto chissà quando e da chi e di cui non si trova più traccia.

L’abbiamo riposto in qualche luogo segreto dove nascondiamo le cose più preziose, per non perderle, per tenerle da conto – e poi ce ne scordiamo.

“L’idea (del titolo, n.d.r.) m’è venuta da un fatto molto banale, ma che qui sarebbe lungo esporre. 

Può capitare a tutti di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perder poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto.

È un tema, nella sua apparente elementarità, molto ambizioso, ne convengo, specie per le “variazioni” che può generare.

Sarebbe, questa volta, non più la caccia alla Bestia, come nel Conte di Kevenhüller, ma la caccia al Bene perduto.

Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia, visto che esiste una “Grazia amissibile”. Con la Grazia o con chissà che altra Cosa del genere. (Non è comunque, quest’ultimo, il caso mio, credo).” Da un’intervista riportata dal curatore Giorgio Agamben, Disappropriata materia, prefazione alla raccolta Giorgio Caproni, Res amissa

Una breve “spiegazione in versi” è contenuta nella poesia Generalizzando della sezione Allegretto con brio:

 

  Tutti riceviamo un dono.

Poi, non ricordiamo più

nè da chi nè che sia.

Soltanto, ne conserviamo

– pungente e senza condono –

la spina della nostalgia.

 

Foto Patrizia Traverso
Foto Patrizia Traverso

 

E così, dopo il fallimento della caccia alla Bestia-al Male, c’è la sconfitta finale e decisiva: la perdita irreparabile del Bene, una perdita che deve rimanere perdita, perché “[…] ogni ritrovamento / – sempre – è una perdita” (L’ignaro).

Non più incontro-scontro, ma impossibilità totale ed irrimediabile di entrambi: “la ‘grazia amissibile è sottratta fin dal primo, lontano momento, il dono e la perdita non sono successive ma coincidono, e la tragedia sta nel riconoscere appunto l’inappartenenza, l’inconoscibilità del bene, pur così acutamente rimpianto.

Custodirlo equivale a dissiparlo. Anche l’eventuale, apparente recupero è un impoverimento, un inganno: inchioda l’oggetto alla sua limitata e sorda realtà, ne cancella le risonanze del ricordo e dell’immaginazione, lo distacca dalla sua rilevanza metaforica e quindi lo annulla: “S’illuse, recuperato / l’oggetto accuratamente perso, / d’aver fatto un acquisto. / Fu gioia d’un momento. / E rimase / turbato” (L’ignaro).” Adele Dei, Giorgio Caproni

Le poesie di quest’ultima raccolta sono spesso la continuazione di riflessioni, domande e risposte appartenenti alle raccolte precedenti.

Continuano le infinite variazioni sui temi già ampliamente sviluppati, si rinnovano congedi che sembravano già definitivamente esauriti, per giungere all’estremo “congedo dal congedo stesso, per inoltrarsi in regioni di sempre più estrema disappropriazione fra l’uomo e il Dio.” Giorgio Agamben, Disappropriata materia

A tale proposito riporto qui di seguito l’interessante accostamento di Agamben tra Il Conte di Kevenhüller e Res amissa: “[…] decisivo è che tanto il Conte che Res amissa abbiano al loro centro una figura dell’improprietà. La Bestia del Conte è, infatti, per eccellenza qualcosa che non appartiene a nessuno (la fiera bestia è, nell’esemplificazione giuridica, il tipo stesso della res nullius), mentre il bene che è in questione nell’ultima raccolta è una res amissa, non nel senso della res derelicta (che, secondo i giuristi romani, diventa nuovamente oggetto di proprietà nell’istante in cui qualcuno la raccoglie), ma al modo di qualcosa che resta per sempre inappropriabile.

E come la Bestia del Conte non era tanto un’allegoria del male (altrettanto legittimamente si potrebbe scorgere in essa, secondo un’equivalenza tipicamente caproniana, una cifra della vita e del linguaggio), quanto della sua radicale improprietà, in modo che l’unico vero male non era in fondo altro che l’accanito quanto vano tentativo umano di catturarla e farla propria, così la res amissa non è che l’inappropriabilità e l’infigurabilità del bene (sia poi questo, a sua volta, natura o grazia, vita o linguaggio – o, come si legge nel primo getto della poesia, la libertà).

 

Foto Patrizia Traverso
Foto Patrizia Traverso

 

La Bestia e la res amissa non sono allora due cose, ma le due facce di una stessa disappropriazione dell’unico dono – o, piuttosto, la res amissa non è che la Bestia divenuta definitivamente inappropriabile, il congedo da ogni caccia e da ogni volontà di appropriazione.” Giorgio Agamben, Disappropriata materia

Non si tratta, quindi, di ritrovare la res amissa, quanto di constatare di non averla mai avuta.

“Il teologo pone / una “grazia amissibile”. / Ma quale altra amissione / più dura (più terribile) / di quella del dono rimasto / – per sempre – inconoscibile?” (Il teologo pone).

Il dono ricevuto è fin dall’inizio e per sempre inconoscibile, di qualunque cosa si tratti: Caproni non specifica mai che cosa sia la res amissa e anche quando scrive, nella poesia omonima, “Non ne trovo traccia” quel “ne” indica niente di preciso, forse perché Tutto, e quindi Nulla, è una res amissa.

 

Riproduzione Vietata 

Un ringraziamento speciale alla fotonarratrice Patrizia Traverso per le foto

 

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Info Rosella Schiesaro

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Nata a Savona, di origini toscane, Rosella Schiesaro ha svolto per più di vent'anni attività di ufficio stampa e relazioni esterne per televisioni, aziende e privati. Cura per LiguriaDay la rubrica Il diario di Tourette dove affronta argomenti di attualità e realizza interviste sotto un personalissimo punto di vista e con uno stile molto diretto e libero. Da sempre appassionata studiosa di Giorgio Caproni, si è laureata con il massimo dei voti con la tesi “Giorgio Caproni: dalla percezione sensoriale del mondo all’estrema solitudine interiore”. In occasione dei centodieci anni dalla nascita del poeta, ci accompagna In viaggio con Giorgio Caproni alla scoperta delle sue poesie più significative attraverso un percorso di lettura assolutamente inedito e coinvolgente.

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