Tanto per non finire:
la morte, già così allegra
a viverla,
ora la dovrei morire?
(Non me la sento,
d’ucciderla.)
Giorgio Caproni e la “Res amissa”.
Giorgio Caproni muore il 22 gennaio 1990 e lascia incompiuto il manoscritto della sua ultima raccolta che, curata da Giorgio Agamben, esce postuma nell’aprile del 1991 presso Garzanti, con il titolo di Res amissa.
Res amissa è anche il titolo della poesia-guida della raccolta che, con le sue “variazioni”, costituisce il “tema” su cui l’ultimo Caproni si è esercitato.
“È un componimento piuttosto lungo “(allargato dallo spalancarsi dei vuoti di silenzio aperti dal poeta), che val la pena però di ritrascrivere per intero, per non perdere attraverso i tagli antologici la dimensione di compattezza che lo connota e l’eloquente sgomento che suscita.” Luigi Surdich, Giorgio Caproni, Un ritratto.
Non ne trovo traccia
…
Venne da me apposta
(di questo son certo)
per farmene dono
…
Rivedo nell’abbandono
del giorno l’esile faccia
biancoflautata…
La manica
in trina…
La grazia,
così dolce e germanica
nel porgere…
…
Un vento
d’urto – un’aria
quasi silicea agghiaccia
ora la stanza…
(È lama
di coltello?
Tormento
oltre il vetro ed il legno
– serrato – dell’imposta?)
…
…
Non ne scorgo più segno.
Più traccia.
…
…
Chiedo
alla morgana…
Rivedo
esile l’esile faccia
flautoscomparsa…
Schiude
– remota – l’albeggiante bocca,
ma non parla.
(Non può
– niente può – dar risposta
…
…
Non spero più di trovarla.
…
L’ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.
Res amissa, la cosa perduta: che cosa sia, Caproni non ce lo dice
ma sappiamo che si tratta di un “dono” (al quarto verso subito rimato con abbandono), un dono ricevuto chissà quando e da chi e di cui non si trova più traccia.
L’abbiamo riposto in qualche luogo segreto dove nascondiamo le cose più preziose, per non perderle, per tenerle da conto – e poi ce ne scordiamo.
“L’idea (del titolo, n.d.r.) m’è venuta da un fatto molto banale, ma che qui sarebbe lungo esporre.
Può capitare a tutti di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perder poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto.
È un tema, nella sua apparente elementarità, molto ambizioso, ne convengo, specie per le “variazioni” che può generare.
Sarebbe, questa volta, non più la caccia alla Bestia, come nel Conte di Kevenhüller, ma la caccia al Bene perduto.
Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia, visto che esiste una “Grazia amissibile”. Con la Grazia o con chissà che altra Cosa del genere. (Non è comunque, quest’ultimo, il caso mio, credo).” Da un’intervista riportata dal curatore Giorgio Agamben, Disappropriata materia, prefazione alla raccolta Giorgio Caproni, Res amissa
Una breve “spiegazione in versi” è contenuta nella poesia Generalizzando della sezione Allegretto con brio:
Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
nè da chi nè che sia.
Soltanto, ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.
E così, dopo il fallimento della caccia alla Bestia-al Male, c’è la sconfitta finale e decisiva: la perdita irreparabile del Bene, una perdita che deve rimanere perdita, perché “[…] ogni ritrovamento / – sempre – è una perdita” (L’ignaro).
Non più incontro-scontro, ma impossibilità totale ed irrimediabile di entrambi: “la ‘grazia amissibile è sottratta fin dal primo, lontano momento, il dono e la perdita non sono successive ma coincidono, e la tragedia sta nel riconoscere appunto l’inappartenenza, l’inconoscibilità del bene, pur così acutamente rimpianto.
Custodirlo equivale a dissiparlo. Anche l’eventuale, apparente recupero è un impoverimento, un inganno: inchioda l’oggetto alla sua limitata e sorda realtà, ne cancella le risonanze del ricordo e dell’immaginazione, lo distacca dalla sua rilevanza metaforica e quindi lo annulla: “S’illuse, recuperato / l’oggetto accuratamente perso, / d’aver fatto un acquisto. / Fu gioia d’un momento. / E rimase / turbato” (L’ignaro).” Adele Dei, Giorgio Caproni
Le poesie di quest’ultima raccolta sono spesso la continuazione di riflessioni, domande e risposte appartenenti alle raccolte precedenti.
Continuano le infinite variazioni sui temi già ampliamente sviluppati, si rinnovano congedi che sembravano già definitivamente esauriti, per giungere all’estremo “congedo dal congedo stesso, per inoltrarsi in regioni di sempre più estrema disappropriazione fra l’uomo e il Dio.” Giorgio Agamben, Disappropriata materia
A tale proposito riporto qui di seguito l’interessante accostamento di Agamben tra Il Conte di Kevenhüller e Res amissa: “[…] decisivo è che tanto il Conte che Res amissa abbiano al loro centro una figura dell’improprietà. La Bestia del Conte è, infatti, per eccellenza qualcosa che non appartiene a nessuno (la fiera bestia è, nell’esemplificazione giuridica, il tipo stesso della res nullius), mentre il bene che è in questione nell’ultima raccolta è una res amissa, non nel senso della res derelicta (che, secondo i giuristi romani, diventa nuovamente oggetto di proprietà nell’istante in cui qualcuno la raccoglie), ma al modo di qualcosa che resta per sempre inappropriabile.
E come la Bestia del Conte non era tanto un’allegoria del male (altrettanto legittimamente si potrebbe scorgere in essa, secondo un’equivalenza tipicamente caproniana, una cifra della vita e del linguaggio), quanto della sua radicale improprietà, in modo che l’unico vero male non era in fondo altro che l’accanito quanto vano tentativo umano di catturarla e farla propria, così la res amissa non è che l’inappropriabilità e l’infigurabilità del bene (sia poi questo, a sua volta, natura o grazia, vita o linguaggio – o, come si legge nel primo getto della poesia, la libertà).
La Bestia e la res amissa non sono allora due cose, ma le due facce di una stessa disappropriazione dell’unico dono – o, piuttosto, la res amissa non è che la Bestia divenuta definitivamente inappropriabile, il congedo da ogni caccia e da ogni volontà di appropriazione.” Giorgio Agamben, Disappropriata materia
Non si tratta, quindi, di ritrovare la res amissa, quanto di constatare di non averla mai avuta.
“Il teologo pone / una “grazia amissibile”. / Ma quale altra amissione / più dura (più terribile) / di quella del dono rimasto / – per sempre – inconoscibile?” (Il teologo pone).
Il dono ricevuto è fin dall’inizio e per sempre inconoscibile, di qualunque cosa si tratti: Caproni non specifica mai che cosa sia la res amissa e anche quando scrive, nella poesia omonima, “Non ne trovo traccia” quel “ne” indica niente di preciso, forse perché Tutto, e quindi Nulla, è una res amissa.
Riproduzione Vietata
Un ringraziamento speciale alla fotonarratrice Patrizia Traverso per le foto
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