Attilio Bertolucci[1] nasce in una frazione di Parma nel 1911 e inizia a scrivere sin da bambino i suoi primi versi, destinati ad essere lasciati anonimi nelle mani del maestro di scuola.
Il precoce distacco dalla madre, motivato dalla frequentazione di un convitto scolastico in città, probabilmente ha ingenerato quel profondo senso di solitudine naturale e necessaria che attraversa l’ermeneutica dei suoi versi[2].
“(…)
L’uomo cammina solo e le foglie umide
che gli ingombrano il passo per i campi
non lo lasciano andare lontano, se pure
una turba familiare lo chiami, confusa
nella ruggine lagrimosa delle ultime piante[3]”.
L’epica di un’infanzia vissuta e liricamente interpretata come categoria esistenziale imprescindibile si svolge in tutta l’opera con fitti richiami autobiografici che trasudano una feconda empirica del quotidiano.
I versi sono multiformi, liberi, modulati in una fonetica endogena e, contemporaneamente, esogena, complessiva, ramificata in suoni scorrevoli come la percezione del tempo.
“Coglierò per te
l’ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l’hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent’anni.
Un po’ smemorata, come tu sarai allora[4]”.
Passato, presente e futuro, nelle forme verbali e nelle immagini liriche, convivono in una reciproca e lungimirante compenetrazione ontologica.
Il tema dell’amore è una ricorrenza sempre viva che testimonia una tensione astorica e atemporale fortemente ancorata alla storicità e alla precarietà della vita umana.
“ Innamorato
Sereno alcool
mite latte di folle pecora
andiamo dunque lontano
dalla fanciulla dolce e pericolosa.
Alcool
Avrai il fuoco azzurro negli occhi
E nel petto.
Innamorato
Sapore di lei ho ancora
sulle mie labbra.
Alcool
Morderò dalle tue labbra
il miele e il latte.
Innamorato
Il vento suona e danza il fuoco[5].
L’ardore sperimentatale e polemico non trova accoglimento tra i versi di Bertolucci, naturalmente predisposto a una prosodia narrativa, piana, talvolta antilirica ma non nell’accezione di contrasto ai canoni poetici bensì intesa, sempre, come predisposizione al racconto, alla semplicità espositiva tesa fino alla creazione del romanzo in versi[6].
Dalle forme brevi più giovanili, seppur mai del tutto abbandonate anche nelle fasi più mature, Bertolucci affronta il topos del tempo, vissuto tra la consapevolezza e l’ansia, come crinale imponderabile della natura umana.
La memoria vive della nominazione puntuale delle piccole cose, ne azzera la miticizzazione per lasciarle assolvere alla loro istintiva funzione di trasfigurazione nelle piccole vite degli uomini.
“O bruna violetta
giunta troppo presto fra noi
che ancora sui tetti
splende la neve fragrante…
Il sole inonda la città,
geme il violino e il debole tamburo
l’accompagna svogliato,
l’ora passa adagio, la gente se ne va[7]”.
Dopo innumerevoli viaggi, anch’essi ricorrenti come particelle memoriali nella poesia bertolucciana, il poeta parmense si trasferisce a Roma intorno alla metà del secolo.
Abita, con la famiglia, in via Carini, nel quartiere Monteverde. Nella Capitale, Bertolucci ebbe amici come Pier Paolo Pasolini, Pietro Citati, Enzo Siciliano, Elsa Morante, Giorgio Manganelli, Alberto Moravia.
Si legga uno stralcio di una poesia dedicata a Pasolini:
“(…)
La terra sopravvive, la tua terra
che il Tagliamento riga
e copre le tue ossa non le tue ceneri
non lontano da dove tuo fratello Guido
con il suo corpo adolescente insanguinò zolle
non lontane da Sebrenica e Tuzla.
Sopravvivenza
anche la violenza[8]”.
Bertolucci mostra, sin dai primissimi componimenti, uno stile poetico fluido che si divide tra il dialogo interioristico e il flusso di coscienza.
Pur mostrando vicinanza al crepuscolarismo, mantiene inalterata la propria cifra artistica personale e non identificabile in precise correnti critico-letterarie.
Affascinato e arricchito dall’interesse per la pittura e per il cinema, le sue opere poetiche si presentano come narrazione di ritratti esistenziali che affrontano una paziente mimesis della progressione temporale degli eventi, delle vite, degli oggetti naturali e artificiali e delle storie quotidiane.
La Capitale, come residenza fissa o dimora per brevi soggiorni, ha ispirato lo sguardo lirico di Bertolucci, in un costante richiamo al visus urbano in cui ritrovare quello degli amici e degli affetti.
“ a P.P. Pasolini
Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell’azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà (…)[9].
Il ricordo, personale e familiare, acquisisce il corpo degli elementi empirici con cui viene narrato e si infittisce di dettagli amorevoli, di pulsioni nevrotiche, di riflessioni drammatiche o riappacificate che intonano una liturgia della quotidianità in cui si addensa il soggetto plurale della storia.
Fonti:
[1]https://www.treccani.it/enciclopedia/attilio-bertolucci_(Dizionario-Biografico)/
[2] Le poesie qui citate sono tratte da Le poesie – Bertolucci, Garzanti 2001.
[3]I morti, tratta da Lettera da casa (1951).
[4]La rosa bianca, tratta da Fuochi in novembre (1934).
[5]Contrasto, tratta da Fuochi in novembre (1934).
[6]La camera da letto, Attilio Bertolucci, con prefazione di Nicola Gardini, Garzanti edizioni.
[7]O bruna violetta, tratta da Lettera da casa (1951).
[8]Ancora a Pier Paolo Pasolini, tratta da Versi negli anni (1928-1996).
[9]Piccola ode a Roma, tratta da Viaggio d’inverno (1971) – Verso Casarola.
Foto di copertina: Dino Ignani (https://www.dinoignani.net/attilio_bertolucci.html)