È una mattina d’estate del 1638. Il caldo non dà tregua, neanche sul colle Esquilino.
Un uomo sta per entrare nella sua bottega; passa davanti a un appartamento, ne vede uscire suo fratello. Sulla porta, ancora in camicia da notte, lo saluta una donna.
La donna è Costanza Piccolomini, moglie di Matteo Bonarelli.
Ma non è suo marito l’uomo che la saluta dopo aver passato la notte con lei: è Luigi Bernini, fratello di Gian Lorenzo di cui la donna è l’amante… un triangolo (anzi un quadrilatero) da farsi girare la testa.
La testa gira a Gian Lorenzo tanto che insegue a spada sguainata il fratello fin dentro la Basilica di Santa Maria Maggiore. E invia in dono alla donna un cesto tramite un servo che però, alla consegna, su mandato dell’artista, tira fuori un rasoio e la sfregia.
Ecco, siamo abituati a pensare a Bernini come a un cortigiano olimpico e invece no. È anche lui figlio del suo tempo e ha un gran caratteraccio.
A farlo rinsavire ci pensano sua madre, Angelica Galante, che supplica il pontefice di fermare colui che ormai ritiene di essere “il padron del mondo”. E lo stesso Urbano VIII Barberini, che non lo punisce affatto (come potrebbe mai punire l’artefice della sua gloria visiva?) ma gli impone di dimenticare la storia d’amore e di coltello, o di rasoio, e di sposarsi.
Non con una qualunque, no, con la più bella di Roma, Caterina Tezio. È il maggio 1639, la sposa ha diciotto anni, lo sposo quarantuno. Il fratello Luigi viene mandato prudentemente in esilio.
Che succede a Costanza?
Dopo un soggiorno di prammatica e solo per qualche mese in un monastero, ritorna dal marito e insieme a lui gestisce una bottega fiorente di opere d’arte.
Il marito è scultore (un valente allievo di Bernini, tra l’altro) e mercante d’arte. Alla sua morte, la sola Costanza continuerà a gestire con competenza e successo economico l’impresa familiare, oltre ad avere una personale collezione di ritratti di Maria Maddalena.
Tanto per valutare le sue capacità imprenditoriali basti considerare che venderà i Baccanali di Poussin al cardinal Richelieu.
Morì ricca dunque, ed ebbe un funerale sontuoso proprio in Santa Maria Maggiore, la veneranda chiesa fondata sull’Esquilino da papa Liberio nel IV secolo e teatro del – quasi – fatto di sangue.
Di lei c’è uno splendido ritratto in marmo, scolpito dal suo amante di un tempo, straordinario per molti versi.
Anzitutto perché non esistono, almeno fino al Settecento inoltrato, ritratti in marmo di familiari o persone ordinarie, che non siano membri del potere papale o dell’establishment. Al più, ritratti dipinti.
Secondo perché questo è un ritratto di libertà formale assoluta e del tutto intimo: la donna ha la bocca semiaperta in cui si intravede la lingua, i capelli sono raccolti alla meglio e la camicia è slacciata sul seno.
L’intendimento di Bernini di simulare la carne attraverso il marmo è reso con una evidenza strabiliante.
Questo ritratto “privato” è di una tale ed esplicita sensualità che l’artista dovette con ogni probabilità disfarsene.
Lo donò a Giovan Carlo de’ Medici e già negli anni ‘40 del ‘600 è agli Uffizi, in un corridoio insieme al Bruto di Michelangelo.
Stessa collocazione hanno i due busti oggi al Bargello di Firenze: la brutalità del Bruto e la sensualità di Costanza si mostrano a noi come istanti di una forza vitale, sebbene di segno diverso, fermati da due dei più grandi scultori di tutti i tempi.
In casa Bonarelli circolavano artisti illustri, compreso Diego Velázquez, che forse per una sua Sibilla trasse ispirazione dalla libertà espressiva della Costanza berniniana.
Abbiamo detto che Costanza venne seppellita in Santa Maria Maggiore, anche se della sua tomba si sono perse le tracce. Nella stessa chiesa fu sepolto anche Gian Lorenzo Bernini, dato che la sua prima abitazione, quella ricordata all’inizio, era proprio lì vicino.
La sua tomba – o quantomeno la pietra sepolcrale – la si vede con la coda dell’occhio, se proprio ci si vuole fare caso.
Colui che ha segnato il volto di un’intera città e di un intero secolo, in un vortice di splendore abbagliante e di meraviglia, riposa humiliter sotto un gradino presso l’altar maggiore, insieme a tutta la sua famiglia, vicino al fratello che fu mandato in esilio per interposta persona.
Ma con la coda dell’occhio e sempre presso un altar maggiore, quello di San Giovanni dei Fiorentini, si può cogliere anche la tomba, ugualmente umile, di un altro protagonista del Seicento romano, Francesco Borromini.
Il quale, prima di porre fine alla sua vita in modo drammatico, ha contribuito, insieme al suo gran rivale, a modellare il volto della Roma dei Papi in una stagione mai più ripetibile.
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