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Il circolo vizioso delle giovani generazioni

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Uno degli elementi che caratterizzano le nuove generazioni, rispetto a quelle precedenti, è il progressivo venire meno dei cosiddetti “riti di passaggio”. Quei momenti che segnano una “frattura” tra uno status o un’età e quelli successivi.

Uno dei momenti più importanti della vita è il passaggio all’età adulta, che comporta l’assunzione di un ruolo sociale segnato dalla piena responsabilità.

Proprio per questo ogni società, anche se con modalità e intensità diverse, tende a ritualizzare tale passaggio attraverso cerimonie collettive, le quali assolvono al compito comune di evidenziare e di drammatizzare l’importanza del momento, ma allo stesso tempo di attenuare l’angoscia del nuovo, della sospensione, della trasformazione non lasciando soli i soggetti coinvolti, e facendoli, al contrario sentire come parte della comunità.

Questi riti mettono in scena a un tempo frattura e continuità.

Frattura, perché spezzano un percorso altrimenti lineare, creando un angolo laddove ci sarebbe stata una linea continua, ma lo fanno all’interno di un quadro sociale condiviso, tanto da chi al rito si sottopone quanto da coloro che ci sono già passati. I riti di passaggio spezzano la continuità, creano degli angoli nella retta del nostro invecchiare, ma lo fanno all’interno dell’ordine costituito.

Rispetto ai decenni precedenti, è mutato il clima politico e soprattutto sono mutate le condizioni economiche e anche i conflitti generazionali si smorzano notevolmente.

Inizia una nuova fase dei rapporti tra genitori e figli. Le generazioni degli anni Sessanta e Settanta avevano come sfondo della loro protesta una situazione economica favorevole, forte, mentre quelli dei decenni successivi si trovano a fare i conti con un progressivo impoverimento del ceto medio e con una sempre maggiore difficoltà a trovare lavoro come quella registrata nella situazione attuale.

Nei decenni precedenti, il momento di frattura era pertanto tra scuola e lavoro, nel cui intermezzo si inseriva il servizio militare. Un momento che, rispetto alla situazione attuale, era anticipato per la gran parte dei giovani. Infatti, in quegli anni per gran parte dei figli della classe operaia, il raggiungimento del diploma era già un traguardo e rappresentava un passo in avanti rispetto alla generazione dei loro genitori, che aveva avuto scarse opportunità di studio, vuoi per motivi economici, vuoi per la guerra.

Oggi il momento di rottura, che separa l’età dello studio da quella del lavoro non solo è spostato in avanti, in quanto sono molti di più i giovani che frequentano l’università, ma la sua valenza si è anche attenuata, perché l’inserimento nel mondo del lavoro è sempre più difficile e anche quando si trova un impiego, questo è spesso precario e non rappresenta un vero progetto alternativo.

Anzi, per certi versi prolunga quella condizione di aleatorietà e di dipendenza dalla famiglia, tipica dello studente, protraendola nel tempo e rimandando il distacco dai genitori.

Il momento del passaggio all’età adulta viene così diluito, stemperato, perde di forza e perde la sua dimensione rituale, che necessita di momenti identificabili collettivamente e in modo chiaro.

Anche per questo oggi gran parte della gioventù non adattata è così introversa e, contemporaneamente, inconsapevole della propria condizione da viverla come fallimento.

Come scrive Luigi Zoja:

«La tecnologia, il forte declino di produttività dell’Europa nei settori non di punta, l’avanzata di molti paesi del terzo mondo si sono da tempo combinate con le difficoltà nel trovare un primo impiego e hanno spinto fuori dal mercato del lavoro proprio quelli che non erano ancora riusciti a entrarvi. Li hanno serrati in un circolo vizioso. In Italia questo problema comune dei paesi ricchi ha assunto un aspetto estremo».

I figli – anzi, il figlio, sempre più spesso unico, sempre più protetto dal mondo, soprattutto se maschio: con un atteggiamento apparentemente benevolo, ma che in realtà rivela poca stima di lui e gliela trasmette – anche quando cresciuti in famiglie di lavoratori manuali sono stati ormai ‘programmati’ per entrare nel ceto medio e svolgere attività ritenute più prestigiose.

Marco Aime

Articolo scritto dalla redazione de La voce del Circolo Pertini 

N.d.R: L’opinione degli autori non coincide necessariamente con quella della Redazione.   

 

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