Gezmataz
Foto di Steve Johnson da Pexels

Intervista a Marco Tindiglia creatore del festival jazz Gezmataz

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Quando si incontrano e si conoscono persone intelligenti e curiose, il prodotto è sempre qualcosa di qualità ma non è sempre scontato che nasca un festival jazz come Gezmataz e che resista per così tanti anni. Ne parliamo con il deus ex machina Marco Tindiglia nella rubrica Soundcheck a posteriori della diciottesima edizione del luglio scorso.

La prima domanda è sempre la stessa, dato il nostro nome: che cosa significa per te la Liguria?

Dal lato materno sono di origini lombarde, cremonese per la precisione, mentre mio padre era di Capo D’Orlando, provincia di Messina, per cui crescendo in casa sono stato esposto ai dialetti di quelle terre e questo penso abbia influito sul non sentirmi genovese al 100%.

Inoltre mia madre e mio padre erano persone molto ospitali ed aperte, sempre pronte ad accogliere in casa amici e parenti anche con scarso preavviso e non di rado per più giorni: gli ospiti in casa nostra tornavano molto volentieri perché la mamma era un’ottima cuoca e sapeva come prenderli per la gola.

Ho molti ricordi in tal senso che contrastano con lo stereotipo dell’inospitalità genovese, ma nonostante queste premesse sicuramente ho un forte legame con la Liguria, con Genova in particolare, e non penso potrei vivere lontano dal mare, così come farei fatica a rinunciare a pesto e focaccia….

Cosa ti ha spinto a creare l’associazione Gezmataz ormai più di 15 anni fa? O meglio quale è stata la molla che ti ha fatto lanciare nell’organizzazione degli eventi musicali?

L’idea di far nascere un nuovo festival jazz a Genova era da un po’ che frullava nella mia testa e in quella di un amico, Vittorio Vic Dellacasa (pensandoci bene forse più nella sua che nella mia). E la cosa ebbe modo di concretizzarsi nel 2004, anno in cui la nostra città venne designata capitale europea della cultura.

Vic si occupò della produzione ed io della direzione artistica e dell’organizzazione del jazz workshop, che sin da allora è stato parte integrante del festival. Per comodità ci appoggiammo ad un’associazione preesistente, ma purtroppo quell’edizione, forse soprattutto a causa della nostra inesperienza di allora nel settore, dal lato economico si rivelò fallimentare.

A causa di ciò nessuna delle persone coinvolte volle saperne di proseguire l’anno successivo, tranne il sottoscritto a cui sarebbe parso di buttare alle ortiche tutto il lavoro svolto in quell’anno se avesse rinunciato.

Fu così che, nonostante fino ad allora non avessi mai organizzato neppure una festa di compleanno in casa mia, mi ritrovai a costituire un’associazione e a produrre il Gezmataz festival.

In sintesi, la molla fu soprattutto la mia capa tosta.

Quali sensazioni provi ad organizzare concerti e mi piacerebbe che tu facessi una panoramica tra le edizioni festival raccontando tre aneddoti indimenticabili nel bene e nel male.

L’organizzazione di concerti da diversi anni mi provoca sensazioni contrastanti tra loro: da un lato, essendo Gezmataz l’unico festival jazz di Genova, produrlo mi gratifica così come i feedback positivi di parte del pubblico, degli artisti e degli addetti ai lavori, dall’altro sento che mi porta via troppa energia che sottraggo al suonare e all’insegnamento, le attività che prediligo.

A causa della pandemia nelle ultime due edizioni del festival non siamo riusciti a realizzare il workshop estivo e questo mi è mancato molto.

Riguardo agli aneddoti nel bene ricordo l’incontro con Ornette Coleman, un uomo ed un musicista di grande carisma la cui importanza trascende il mero fatto artistico: quando in occasione del suo concerto a Gezmataz lo presentai al pubblico ricordo che mi misi a piangere per l’emozione.

Un altro episodio che mi viene in mente, anche perché negli anni si è ripetuto più volte, è quello riguardante un amico poco avvezzo all’ascolto del jazz, che ogni volta che assiste ad un concerto a Gezmataz conclude con questa frase pronunciata con voce nasale:” ho visto gente suicidarsi per molto meno!”.

Nel male ricordo due anni fa in occasione del concerto di Mike Stern che nel momento in cui con Mike, Tome Kennedy e Bob Franceschini ci avvicinammo al tavolo del ristorante per cenare, Dave Weckl, che ci aveva anticipato, iniziò ad imprecare in malo modo gettando il menù sul tavolo perché sullo stesso non aveva trovato la pasta al pesto: la trovai una reazione veramente fuori luogo, che andando a sommarsi al modo a dir poco scortese con cui lo avevo visto rapportarsi con i tecnici sul palco poco prima, mi suscitò per un attimo una reazione che fortunatamente riuscii a controllare.

Abbandonai comunque il tavolo e fu l’unica volta in cui non cenai con la band in 18 anni di festival.

Mi trasformo adesso in un ragazzo tra i 15 e i 25 anni, puoi darmi tre consigli concreti per iniziare a suonare musica oggi?

Essere curioso, aperto all’ascolto a 360°, procurarsi un buon strumento e suonare il prima possibile insieme agli altri.

Se penso alla tua biografia, vedo tante esperienze anche in ambiti eterogenei. Come definiresti la tua carriera in tre aggettivi?

Sonora, tattile e serena.

Dove ti vedi tra 20 anni e cosa stai facendo?

Forse condizionato dal momento che stiamo vivendo d’istinto mi verrebbe da rispondere sotto due metri di terra e, di conseguenza, non particolarmente attivo.., ma se così non fosse mi piacerebbe poter continuare a suonare finché il fisico e la testa me lo consentiranno.

Quali sono i tre dischi che porteresti sull’isola deserta?

Kind of Blue” di Miles Davis, “Grace” di Jeff Buckley e “Ballads” di John Coltrane

 

 

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Info Francesco Crisanti

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Docente di lettere e storico dell'arte, ma anche collezionista di dischi, libri e fumetti. Ha pubblicato: "Un capolavoro senza tempo. La Basilica di San Piero a Grado", una guida sull'Abbazia di Borzone oltre ad un testo di narrativa per ragazzi intitolato "Ventitré" e ha un cassetto pieno di nuovi progetti, testi e idee che non vedranno mai la luce o forse sì... ci penseremo domani.

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