A vent’anni dalle terribili giornate di Genova del luglio 2001, è il caso di sottoporre a un’opera di manutenzione della memoria i fatti di allora. Manutenzione necessaria per i più giovani – che non vi assistettero – e per chi li visse, ciascuno dal proprio angolo e nella propria prospettiva.
Quel Luglio di vent’anni fa segna un crinale, una spaccatura nei rapporti Stato-cittadini le cui conseguenze (solo negative, perché di positive non riusciamo proprio a vederne) viviamo ancora oggi.
Primo effetto: il movimento no-global è stato brutalmente messo a tacere. Le centinaia di migliaia di persone, giovani e meno giovani, accorsi a Genova da ogni angolo del mondo, oggi non si possono immaginare né organizzare. Il sangue sparso a Genova non è stato cancellato, non solo dalla memoria ma anche nella sua funzione ammonitrice e minacciosa. Quel sangue potrà ancora, ove occorra, tornare a essere versato.
Secondo effetto. La gestione da parte degli organi preposti all’ordine pubblico ha mostrato paradossalmente due fenomeni apparentemente contrastanti: la clamorosa disorganizzazione ‘sul campo’ delle forze di polizia, negli organi di comando come nel personale esecutivo, ma – fatto ben più preoccupante – una vera e propria ‘gestione’ politica di quella disorganizzazione, pur assistita da e dotata di mezzi di inusuale capacità offensiva nei confronti dei dimostranti. Si è fatto in modo che quella capacità offensiva trascurasse l’essenziale funzione di difesa dei cittadini, dei loro beni, della loro sicurezza, ignorando le devastazioni operate dal famigerato, e mai individuato ‘blocco nero’, scatenandosi invece nell’aggressione alle forze, originariamente inermi e pacifiche, di quanti avevano immaginato di fare del G8 una grande occasione di intervento popolare sulle scelte politiche, sociali ed economiche, dei cosiddetti ‘Grandi’.
La polizia ha perso allora una grande occasione per dimostrare di avere portato a termine il processo di democratizzazione che era da anni in atto al suo interno.
Si è interrotto a Genova, in gran parte burocratizzandosi, il coraggioso cammino intrapreso dal SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) sotto la guida del rapidamente umiliato e dimenticato questore Francesco Forleo. In una forsennata ‘coazione a ripetere’, la polizia e i carabinieri (ma, come si può vedere dalla cronaca, anche gli agenti penitenziari) sono ancora oggi pronti a rendersi volenterosi esecutori di una politica di spesso selvaggia repressione. In questo favoriti dalla trasformazione degli agenti (i ‘tutori dell’ordine’) in minacciosi e non identificabili robot. E’ significativo il gesto – suscettibile di sanzioni disciplinari con cui viene punito – di togliersi il casco a manifestare che c’è un essere umano là, dentro a quel robot.
L’ultima considerazione è una penosa constatazione che riguarda l’assenza della magistratura inquirente, in questo come in altri casi (si pensi all’eccidio di via Fracchia), lasciatasi tenere a bordo campo, assente volenterosa e disponibile, pronta a intervenire solo a operazione compiuta con l’apparato rituale e non efficientissimo della nostra giustizia.
Con buona pace degli articoli 55 e 327 del codice di procedura penale, che affidano al pubblico ministero il compito di dirigere la polizia giudiziaria nel ’prendere notizia dei reati e impedire che vengano portati a ulteriori conseguenze’.