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Alla scoperta di Davide Livermore, l’eclettico artista alla guida del Teatro Nazionale di Genova

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Di Davide Livermore non smette di stupire il percorso incredibilmente articolato che lo ha condotto ad esplorare e praticare ai massimi livelli ogni aspetto della vita teatrale. Per chi non lo conosce ecco una parte del lungo elenco delle sue esperienze in questo campo: cantante, danzatore, attore, costumista, sceneggiatore, coreografo, insegnante, scenografo, light designer, regista di opera e teatro, direttore artistico, sovrintendente, amministratore e curatore di grandi eventi internazionali. Una vita intensa governata dalle sue grandi passioni che contemplano, tra le altre, l’uso in teatro delle tecnologie più avanzate di cui si serve per trasformare le sue magnifiche visioni in realtà condita di pura magia e che ne hanno fatto uno dei registi più amati e acclamati al mondo. E quella per la musica, tutta, quella che ascolta e traduce in teatro, quella che ha cantato sui palcoscenici più prestigiosi e anche quella personale forma espressiva che sviluppa insieme al compositore Andrea Chenna.

Reclamato in tutto il mondo ha diretto e realizzato le scenografie di opere messe in scena in Australia alla Sidney Opera House, in Russia al Teatro Bolshoi di Mosca, in Spagna al Teatro Real di Madrid, in Giappone al BunkaKaikan di Tokio, in Korea al Seoul Art Center, in Oman  alla Royal Opera House di Muscat e ovviamente alla Scala che per due anni consecutivi, nel 2018 e nel 2019, gli ha chiesto di aprire la stagione operistica rispettivamente con Attila e Tosca che hanno ottenuto un successo davvero planetario.

Ha ricevuto riconoscimenti prestigiosissimi: nel 2011 il suo allestimento dei Vespri siciliani al Regio di Torino, che ha inaugurato le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è entrato nella classifica dei Top Ten Musical Events del 2011 selezionati da Musical America del New York Times come uno dei 10 migliori spettacoli di quell’anno.

La forza del destino che ha allestito al Palau de les Arts di Valencia ha ottenuto nel 2014 il premio Campoamor per il miglior spettacolo dell’anno in Spagna. Nel 2018 ha vinto il Premio della critica francese con Adriana Lecouvreur allestito per l’Opera di Monte-Carlo.

Il Presidente Mattarella gli ha conferito l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia, uno dei massimi riconoscimenti conferiti dal Presidente della Repubblica a chi promuove il prestigio nazionale all’estero.

A Davide Livermore, che alle sue molteplici attività aggiunge quella recente di Direttore del Teatro Nazionale di Genova, dove esplicita sia le sue qualità artistiche sia quelle manageriali, chiedo di ricordare i suoi esordi quando nella sua vita a prevalere era la musica.

Nei primi anni novanta, all’inizio della mia attività, con i madrigalisti della Radio Svizzera Italiana incidevo opere e tanta musica antica: Palestrina, Monteverdi… Lavoravo come madrigalista, come corista, come solista, i madrigali li incidevo con Diego Fasolis, uno dei più grandi direttori del mondo e imparavo la danza rinascimentale barocca con Andrea Francalanci che all’epoca era il migliore coreografo ricercatore in questo campo. Rivedendo il mio passato di cantante mi ritengo fortunato e grato per avere avuto l’opportunità di cantare a fianco di Pavarotti, Domingo e Carreras. Cantando con questi grandi artisti ho imparato che non esistono piccoli o grandi ruoli ma esistono piccoli e grandi interpreti. Ho imparato che non sono i ruoli che determinano la qualità del cantante, ma che tutto dipende sempre da come ci si mette in relazione con gli altri artisti nella narrazione, e che qualsiasi ruolo sul palco deve essere interpretato con la coscienza del peso che quel ruolo rappresenta all’interno della drammaturgia complessiva di quell’opera. Mi è sempre stato molto chiaro quanto, per esempio, un comprimario può aiutare, quanto è determinante nella riuscita di una scena, quanto lo è anche nella riuscita dell’esito e del successo del protagonista.

Al pubblico non basta più il cantante preoccupato solo dell’emissione della sua voce.

No, ma oggi i cantanti sono quasi sempre anche bravi attori. Oggi nel mondo dell’opera esiste un materiale umano e artistico straordinario. Il loro compito in scena è complesso: sono artisti che vanno diretti sapendo cosa succede tecnicamente nel canto. Occorre sapere cosa accade nella partitura, avere coscienza del momento in cui possono fare quello che gli si chiede e del momento in cui non possono farlo perché devono mantenersi in grado di fonare quel determinato suono che ha delle implicazioni tecniche di grande difficoltà.

Com’è avvenuto il passaggio da cantante a regista d’opera e di teatro?

Penso che sia nato dalla necessità di manifestare un bisogno profondo della mia ricerca umana e artistica. Passavo ore alla fine delle mie prove a guardare nascosto in teatro, come montavano le luci Ronconi, Zhang Yimou, Paul Curren, David Pountey e tanti altri o a seguire i montaggi di Margherita Palli e di altri scenografi che ho avuto la fortuna di incontrare. Lo facevo perché amavo guardare e conoscere ogni aspetto del lavoro che viveva congiuntamente alla mia performance. Carlo Majer, il mio maestro di teatro, se ne è accorto e una delle tante sere che passavamo insieme parlando di musica, quando dirigeva il San Carlo di Napoli, mi disse che non riusciva a trovare un regista per La colomba ferita, un’opera del 1671 di Francesco Provenzale, perché tutti trovavano il libretto troppo complesso da realizzare. Io che conoscevo già quest’opera, amando tanto il repertorio seicentesco, gli dissi di prendere un regista che adottasse le soluzioni che mi stavano venendo in mente e che secondo me potevano funzionare. A quel punto, lui mi guardò sorridendo e mi disse allora la fai tu.

Qui, al Teatro Nazionale di Genova, la stagione è iniziata con Elena di Euripide una grande produzione che firmi come regista e come scenografo, l’evento più importante della stagione 2019, che hai realizzato per il Teatro Greco di Siracusa. Uno spettacolo straordinario che richiede l’impiego di 16 attori e di molti tecnici altamente specializzati, capaci di garantire la realizzazione delle tue idee. Uno spettacolo per il quale è stata creata una messa in scena grandiosa con il palcoscenico trasformato in un vasto specchio d’acqua riflesso su di un led wall di sedici metri e una colonna sonora che rielabora, attraverso sensori sommersi, i suoni prodotti da quest’acqua. È un segnale di ripresa molto forte in un momento in cui c’è bisogno di capire quali soluzioni trovare per risolvere i problemi delle tante persone che in quest’ambito non hanno le tutele per continuare a farlo.

Ci troviamo in una nazione che ha bisogno seriamente di rifondare il suo concetto di cultura. Sostenere la cultura non è salvaguardare la Scala o il Piccolo come se andare a vedere l’opera equivalesse ad andare a vedere un parco a tema sui dinosauri. Bisognerebbe fare una profonda riflessione su questi argomenti ma soprattutto questa riflessione dovrebbe partire dalla storia e dalla memoria. Come sempre, se vogliamo capire chi siamo oggi e dove andare, dobbiamo chiederci che cosa è successo prima. Finita la guerra, la cultura è stata data in subappalto al Partito Comunista. Il partito ha  fatto bene? Ha fatto male? Non è questo il punto. Ora è importante guardare le cose dall’alto. Osservare la macrostruttura. Tremonti fece dichiarazioni pesanti sulla cultura che trovano un senso solo in relazione a mosse di natura elettorale: doveva dare una spallata alla sinistra e vincere le elezioni e così attaccò l’unico coagulante vero del suo antagonista che mancava ormai di ideologia. Oggi, dopo che le false affermazioni di Tremonti sono state smentite in ogni modo, abbiamo una grande occasione per far passare una verità assoluta: che la cultura è di tutti e che deve esser tutelata da ogni forza politica per il bene, anche economico, del Paese. Davanti al sagrato di una chiesa del 1200 a pallone ci giocavano i bambini che sono diventati politici di destra o di sinistra, elettori di destra o di sinistra. In questo humus di bellezza, in questo sistema di bellezza che ci vede rappresentati da milioni di cose di straordinaria e straziante “maraviglia” ci siamo tutti ed è un patrimonio che dobbiamo tutelare e sul quale dobbiamo dirci italiani. Per tutelare questo patrimonio dobbiamo fare emergere il valore degli artisti, il valore delle idee e non il peso degli “amici”.

Nel decalogo che hai scritto per sottolineare quella che dovrebbe essere la funzione di un teatro stabile parli del rapporto con il Pubblico (P maiuscola). Di come il teatro debba esprimersi anche al di fuori della propria struttura, attraverso i musei per esempio o attraverso tutto quello che può accogliere e aggregare. Genova la conosci da molti anni perché qui hai realizzato molte opere liriche con il Teatro Carlo Felice, cito il Don Giovanni, Billy Budd, Tosca: il rapporto che vai sviluppando con la città corrisponde a questa idea?

La prima cosa che ho fatto è stato guardarmi attorno a 360 gradi. Trovo che il Ducale abbia un presidente intelligente, profondo con la voglia di fare molte cose. E’ anche noto e questo è un vantaggio oltre che un merito. Il Museo dell’Attore ha una potenzialità incredibile che vorrei assolutamente aiutare a sviluppare, l‘Accademia di Belle Arti mi sembra gestita con passione e competenza. Il Teatro Carlo Felice dispone di un’orchestra che è tra le migliori che si possono ascoltare in Italia e di un palcoscenico straordinario. E’ un teatro che offre enormi possibilità e ha un sovrintendente con cui è molto bello immaginare progetti. Le grandi capacità di questa città sono state espresse in parte con la riapertura del Ponte: ho capito che probabilmente, nel momento in cui si vanno ad ottimizzare le risorse, ad abbattere le barriere di comunicazione a vantaggio di una strategia capace di coinvolgere le virtù delle massime realtà del territorio, possono succedere cose straordinarie. A me questa città da’ l’idea di essere simile a quegli atleti che fanno le corse per il potenziamento dei muscoli e dietro la schiena hanno legato un elastico a cui sono attaccati un certo numero di pesi. Tu sganci l’elastico e l’atleta vola. Ci sono pesi da cui non è neanche tanto difficile sganciarsi. Sono tare, a volte legate solo all’essere un po’ restii ad aprirsi al rapporto con l’altro. Ma l’intelligenza che io ho trovato in questa città, la conoscenza del teatro, perché questa è una città teatrale come nessuna, permea in senso anche verticale la società. Qui non si tratta del piccolo jet set che si deve auto-rappresentare: c’è proprio il piacere di andare a teatro perché il teatro è un valore importante che addensa quelle che sono le conoscenze di una società e in questo la eleva. Questo piacere lo trovo anche parlando con le persone che incontro in teatro mentre fanno la fila per l’abbonamento. Sono persone che mi emozionano profondamente per la coscienza che hanno del ruolo che il teatro ha nella loro vita.

In una delle tue prime dichiarazioni hai affermato di volere un teatro aperto alle culture diverse di questa città. Io penso che forse ti piacerebbe allestire degli spettacoli in spagnolo, in francese, in inglese non solo per offrirne la fruizione nella loro lingua ai molti stranieri che vivono a Genova ma anche per esportare il Teatro Nazionale senza limitarsi ad offrirlo agli italiani all’estero.

Questa è una capacità tipicamente italiana. Donna Adelaide Ristori (celebratissima artista del primo ottocento), la cui Lady Macbeth ha determinato in Giuseppe Verdi, che l’aveva vista recitare a Londra, il desiderio di una riscrittura della sua partitura, recitava in inglese a Londra e in francese all’Olimpia di Parigi. Questo era il livello cosmopolita e la “reference” normale che aveva un attore italiano. Io vorrei tornare a questo. E posso dire che Donna Adelaide Ristori, profondamente evocata in tanti incontri che ho avuto con l’università e con il museo dell’Attore, è una delle figure su cui mi piacerebbe far riflettere la città, ma non solo, me stesso in primis e poi il teatro italiano, perché presa seriamente potrebbe veramente cambiare le prospettive e i panorami del nostro futuro. Come sempre è guardando al passato che ci si rende conto di come può essere cambiata la percezione di quello che potremmo essere nel futuro.

Ho visto molte persone andare a vedere gli spettacoli proposti dal TIR, il camion che si apre e diventa palcoscenico con luci e scenografie come in un vero teatro, che hai fatto realizzare in tempo di lockdown, ed erano persone del quartiere in cui il tir arrivava. Persone che, in qualche caso, a teatro non c’erano mai andate per mille motivi: economici, dovuti alla mancanza di tempo, perché non lo conosce. Il TIR può davvero andare a stimolare delle curiosità la dove sembrerebbero assopite.

Il decentramento culturale è stato quello che in assoluto ha coinvolto di più la mia vita da bambino. Io non nasco in una famiglia che vive nel centro di Torino, sono nato in un quartiere periferico. Ricordo le periferie e i quartieri che avevano una vita densissima anche solo per il fatto che ovunque trovavi una biblioteca, trovavi il teatro fatto localmente, trovavi i concerti rock, i cori che potevano essere quelli proposti dalla chiesa o quelli proposti dalla municipalità. Quartieri dove c’era un’attività culturale decentrata molto grande nei primi anni settanta a Torino. Il decentramento favorisce la partecipazione di tutti, non solo di chi ha i mezzi per fare le cose che altri non possono permettersi. Se questo fosse il gioco avremmo già perso la partita. La cultura è un bene comune. Il TIR è stata un’azione indomita che evidentemente a Genova ha preso un’attitudine diversa rispetto a quello che è stata alla sua genesi valenziana in cui desideravo profondamente far conoscere il teatro e l’opera non solo a parti della società che non ne avevano conoscenza ma anche a parti geografiche in cui non era mai arrivato nulla del genere. A Genova, in questo momento c’era da dire “Siamo comunità, andiamo in piazza, vinciamo la paura”. E la paura possiamo vincerla solo stando vicini, uniti anche se con il distanziamento fisico necessario. Noi ci siamo. Partecipiamo. Il teatro è un invito profondo a vincere la paura di vivere.

C’è differenza tra la realizzazione di un’opera e quella di uno spettacolo di prosa?

Nel mondo dell’opera c’è sempre stata innanzitutto una sorta di grande presentazione del progetto, tanto dal punto di vista tecnico quanto dal punto di vista artistico, registico ecc. Una presentazione doveva coinvolgere tutto il teatro. Quante volte mi sono ritrovato con un direttore artistico, soprattutto quando il direttore artistico era quel grande genio, quella grande persona che è stata Alberto Zedda, che mi guardava con i suoi occhi intelligentissimi e mi diceva si, ma tu come fai quando il cambio scena è a battuta 34 della quinta scena del secondo atto? Se mi metti questa cosa qui, hai a disposizione quindici battute. In quindici battute riesci a farlo questo cambio di scena? Già in questa fase venivano affrontati una serie di problemi che andavano dall’artistico al tecnico. Vorrei portare questa progettualità anche nella prosa. I direttori artistici che mi hanno fatto crescere scavavano dentro le drammaturgie che proponevo per vederne i pregi ma anche per evidenziare le parti più scure, i difetti o le parti non completamente compiute. Questa interfaccia attiva per il bene dello spettacolo è quello che vorrei avere con gli artisti che produrrò perché è questo che a me, da artista, ha portato ad una crescita importante.

Ho letto di una Gazza ladra che hai realizzato in Giappone per la quale hai fatto costruire una gazza che volava sulle teste degli spettatori.

Ho preso il campione italiano di aeromodellismo e l’ho portato a Tokio. Questo ragazzo straordinario aveva costruito un aereo della stessa dimensione di una gazza e lo aveva piumato per cui, quello che il pubblico vedeva, era una gazza appena stilizzata come se fosse stata disegnata da Miyazaki. Il codice visivo era assolutamente appropriato al luogo. Era straordinario vedere quest’uccello interagire costantemente con la musica creando dei momenti meravigliosi. La gazza faceva cose strabilianti sulla scena grazie a questo meraviglioso campione italiano di aeromodellismo che la faceva volare sull’orchestra, e volteggiare sulla testa degli spettatori. Il boato che ebbe sugli applausi non puoi immaginarlo. È stato Alberto Zedda, che cito per la seconda volta in quest’intervista, a volermi al BunkaKaikan di Tokio per quest’opera. Fu un grande regalo e una bellissima esperienza con lui. Alberto Zedda ce l’ho nel cuore.

Hai appena raccontato un esempio di quello che rifiuti di chiamare genio.

No, non è genio, quando affronto una regia mi sento uno che prende un pezzo di marmo e comincia a picchiare dentro questo blocco fino a quando non tira fuori una forma. Il blocco di marmo in quel caso era la Gazza ladra che è una delle opere più difficili da rappresentare. Un pezzo di marmo molto duro, che andava colpito con forza. Continuavo a sgretolarlo perché ogni scena presentava delle complicazioni e ad ogni scena tu devi far corrispondere una narrazione. Ti chiedi, questa cosa come si racconta? Continui a picchiare fino a quando non viene fuori il campione italiano di aeromodellismo.

Mi piace moltissimo che l’idea da cui parti sia un’idea che realizzerai così come la racconti.

Le idee in teatro sono solo quelle che realizzi, tutte le altre non sono idee e vanno buttate. Per me il concetto stesso di idea in teatro è solo quello che trasformo in realtà.

 

Ginni Gibboni

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